Happy BDays . IRA
Steve McCurry
In 23 Aprile 2021 da Debora BorgognoniCredere in qualcosa, e crederci veramente, non è esercizio semplice. Chi di noi ha fede? Fede vera, di quelle che hai anche quando sei felice, perché avere fede quando soffri è più facile.
I fotografi di guerra hanno un dio: il proprio lavoro. Chiamateli incoscienti, chiamateli temerari, chiamateli egocentrici. Si credono immortali? Giocano con la vita? Forse. Ma di certo il loro dio li fa immergere fino al collo per portare alla luce la verità.
Vi racconto una storia. Steve McCurry era un ragazzo di ventinove anni, nato nei sobborghi di Filadelfia, un americano con un sogno che non era il cinema, un sogno scomodo da realizzare, letteralmente. È l’anno in cui ha inizio la guerra sovietico-afghana. Di lì a pochi mesi i soldati russi entreranno in territorio afghano. Il fotografo è sul confine pakistano, vestito in abiti tradizionali, diventa uno di loro e li può fotografare. Fotografa i mujahiddin, i ribelli ancora sconosciuti alla stampa mondiale, supera il confine, fotografa la guerra, si cuce le pellicole nella stoffa e torna indietro. Il New York Times lo pubblica, il fotografo ventinovenne vince la Robert Capa Golden Metal, e diventa “Steve McCurry reporter di guerra della Magnum Photos”, quello che oggi conosciamo per il ritratto della ragazza afghana, per le luci morbide, per i colori dosati. Per l’immersione vera, per la prospettiva perfetta.
Nota: Il 23 aprile 1950 nasce Steve McCurry, fotografo reportagista, fotografo di guerra. Happy BDay!
Citazioni da: A occhi aperti, Mario Calabresi, Contrasto, 2013:
«Solo se sei disposto a correre il rischio, solo se sei completamente convinto, allora sei pronto. Le belle foto spno in quell’acqua sporca, non puoi proteggerti, stare ai margini, un po’ fuori e un po’ dentro: se la gente è sommersa fino al collo devi essere dentro con loro, non c’è separazione, non puoi stare sulla sponda a guardare, ma devi diventare parte della storia e abbracciarla fino in fondo».
«Mentre viaggiavo nel deserto del Rajasthan verso Jaisalmer, in un’area dove non pioveva da più di dieci anni, si alzò una tempesta di polvere di quelle cha annunciano il cambio di stagione. Le condizioni erano estreme, il caldo terribile, go dovuto fermare la macchina e ho visto una scena indimenticabile per la sua forza e la sua poesia: c’erano delle donne vestite di rosso che per proteggersi si erano raccolte in un cerchio, strette una accanto all’altra e con i bambini in mezzo. Quelle donne erano addette alla manutenzioen della strada, la riparavano con le loro mani. Le aveva investite la tempesta di sabbia e per superare la paura e darsi coraggio avevano cominciato a cantare».
«Mi ero messo su una piccola collina e davanti a me avevo il panorama di una città che era stata bombardata per dieci anni. Assomigliava a Dresda: era tutta distrutta fino all’orizzonte. Questa famiglia era appena tornata dall’Iran, dove era fuggita, e stava per ricostruire la casa, tanto che si può vedere la parte di un muro nuovo. Sono stato fermo in quel punto per sette giorni, e ho scattato la stessa foto in momenti diversi. Le persone erano sempre là e io ho semplicemente fotografato la loro vita e le loro azioni quotidiane. Poi ho scelto uno scatto solo, che era il simbolo della loro condizione di solitudine, ma anche di coraggio e caparbietà. Sono tornato nello stesso posto dieci anni fa, quando già erano arrivati gli americani, e il panorama è completamente diverso, è stato tutto completamente ricostruito».
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