
Le storie superbe . SUPERBIA
Fottuto incontro
In 17 Gennaio 2021 da Manuela Capotombolo
Manuela Capotombolo
Cristo santo! Aspettare al John Fitzgerald Kennedy è una follia. Qui fuori non si respira e sembra di ingoiare asfalto. Meglio il caffè bruciato del Mug. Ne bevo un sorso e guardo il cielo, che poi al Kennedy è sempre lo stesso. Pallido lenzuolo bagnato di piscio. Puzza di ammoniaca! Lo sapevi, Jack! Tu lo sapevi, perché in questa fogna ci lavori! Sei uno dei pochi neri del Queens che ha scelto di guidare una fottuta Yellow Cab! Quel medaglione ti rimarrà attaccato al collo pure da cadavere!
Chi te l’ha fatto fare, idiota? Venire qui il giorno libero solo per incontrare una fighettina da una manciata di dollari l’ora!
Molly. Molly. Tra poco arriverà.
Adesso ci vuole una sigaretta. Accendo, aspiro fino a sentire sfrigolare il tabacco, e disegno un anello di fumo nell’aria.
Molly. È la puttana più bella del Jacky-Oh, ha la pelle liscia come la seta, scura come una pantera, le labbra possono risucchiare qualsiasi cosa. Qualsiasi.
Molly. Ancora non mi chiama, forse il volo è in ritardo, vorrei entrare, ma lei ha detto di aspettare al Terminal 7, davanti alla grande colonna. Un altro anello di fumo.
Quanti se ne sarà fatti a Boston? Doveva prendersi una pausa, lo so che ha i suoi amichetti lì.
Mi guardo intorno. C’è Samir, lo riconosco per il medaglione sul cofano, la sua placca scintilla in mezzo alle altre, quasi che il sole ci si fosse schiantato sopra. Mi fa un cenno con la testa, sorride. In fondo deve essere un bravo pachistano. Ah, si fotta!
Meglio concentrarsi sulle fighe che entrano ed escono dall’aeroporto. Sono lucide di trucco e sudore, alcune hanno le ascelle bagnate. Il caldo non fa sconti.
Gli occhi mi cadono sulle gonnelline. Ci sono tessuti acrilici fatti per rimanere incollati alle chiappe. È meglio di un cinema.
Sono le 11, nessuna chiamata. Molly, dove cazzo stai?
Dio, lo so, ho gli occhi arrossati, i capelli unti, la faccia distrutta. Cosa le dirò? Se la porto a casa, troverà lo schifo. Sono due giorni che i cocci di vetro stanno sul pavimento, li ho solo accantonati in un angolo. E i piatti sono ancora incrostati di sugo.
Merda, mi è arrivata la fame chimica, mangerei uno shuttle intero di stranieri. Anche le ossa dei vecchi mi vanno bene. Metto una mano sullo stomaco per far tacere i brontolii. Inutile.
Ora cammino avanti e indietro, mi asciugo il sudore dalla fronte, mi mangiucchio un’unghia. Ho la bocca asciutta, i pensieri scivolerebbero meglio con una canna. Cristo santo!
Mi accontento di un’altra sigaretta. Accendo, aspiro, e faccio il solito anello di fumo.
Spalanco gli occhi. Nel cerchio che ho appena disegnato appare il viso di Molly. L’anello si dissolve, Molly invece resta nell’aria come un’incisione. Mi ha riconosciuto, avanza verso di me con la sua lunga falcata da diva. Volta la testa a destra, a sinistra, sembra evitarmi con lo sguardo.
Getto la sigaretta a terra, mi strofino le mani sulla camicia, poi le lascio a penzoloni proprio come un coglione.
Andrà tutto bene, penso, mi ripulisco, farò i turni doppi, le dirò che voglio metter su famiglia, che lei deve lasciar stare quel lavoro di merda.
Eccola. Trolley accanto a una minigonna nera, tacchi a spillo, lungo collo, viso stanco, sopracciglia disegnate, e neanche un sorriso.
Il suo Chanel è una barriera tra noi.
«Jack, dobbiamo parlare!».
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