
Le storie superbe . SUPERBIA
Il morbo della falena
In 7 Marzo 2021 da Redazione Seven Blogdi Manuela Capotombolo
Tutti sanno che le falene sono insetti stupidi. Fanno come le troie. Schiudono le ali disegnando ellissi nell’aria, alla ricerca di calore notturno. Lo trovano. E dura una frazione di secondo. Il tempo di finire bruciate. E andare dritte all’inferno.
Tutti sanno che una figlia può diventare cattiva per colpa di sua madre. Tutti lo sanno. Ma all’epoca ero una solo una bambina. E nessuno poteva salvarmi. Perciò sono cresciuta con una mamma che mi picchiava e il morbo della falena nel cuore.
Era troppo tardi quando lo capii. Lavoravo al Margot. Allargavo le cosce più che potevo, tendevo i nervi fino al dolore, fino a sfibrarne la trama. Lingue e membri si adattavano alle mie cavità, penetravano ogni orifizio. Le dita sembravano punte di una forchetta, affondavano su seni pieni e sodi, della stessa consistenza della carne di polpo. Li strizzavano come frutti consacrati a Venere-Puttana. Mille bocche, voraci e filanti, si sono cibate del mio latte. Un dolore legnoso ne derivava, quando venivo stretta, addentata, morsa.
Ero famosa per la mia abilità. Incassare colpi su colpi su colpi.
Ci sono ombre dappertutto. Riesco a vederle ormai. Ombre striscianti lungo la strada cieca.
Sono una di loro. E i ricordi mi fermentano dentro. Il ricordo di larve brulicanti tra le viscere, il ricordo di quando sono morta.
Il morbo della falena ha finito per consumarmi. Avevo trovato un uomo. Carne rovesciata sul mio corpo come salsa di pomodoro. E scoparci era un dolce sacrificio degno del nulla. Non pretendevo l’orgasmo. Non ce n’era l’urgenza. Nelle carezze cercavo la mia dose di calore. Come una falena.
Vale una legge in qualche dannato posto del mondo. Tutte le volte che un uomo abbandona il nido, la sua donna perde la testa.
Fuori era buio. La nebbia rendeva le forme vaghe e incerte. Dentro, il freddo rimaneva incollato alla sottana, penetrava la stoffa, gelava la pelle. Ed io lo sentivo fino al midollo. Mi cullavo sul letto come una bambina impaurita. Abbracciavo le gambe con la testa tra le ginocchia. La solitudine era una litania che la notte mi soffiava nelle orecchie. Fallo ora, affoga le ali nella cenere, mi sussurrava. Dannata notte! In cucina c’era un coltello luccicante e appuntito.
È vero. È difficile morire in quel modo. Puntare la lama al centro del ventre, conficcarsela fino a sentirne lo strappo. Solo un pazzo può riuscirci. Il coltello mi rimase dentro. La stanza era diventata una giostra, mi sembrava di essere montata su un cavallino-giocattolo. Tavolo, sedie, mobili, poltrona, mi ballavano intorno. Sentivo un brusio, come il rumore di un ruscello. Poi un conato. Vomitai un fiotto di sangue. Caddi a terra.
L’ultima cosa che vidi fu proprio una falena. Svolazzava sotto la luce, tormentata da una danza senza scopo.
Sì, una figlia può diventare cattiva per colpa di sua madre.
E nessuno me lo ha mai detto.
Nessuno.
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