
Le opinioni superbe . SUPERBIA
L’eccesso, perché…
In 31 Dicembre 2021 da Redazione Seven BlogSì, dicembre è un mese di eccessi. Cibo, doni, luci, freddo, amore nell’aria, propositi e prospettive per un imminente futuro. A Seven riflettiamo sul tema e scriviamo raccontini superbi!
da Debora
980, Kelvin Road
Io amo e odio il sangue.
Un po’ lo amo un po’ lo odio, un po’ mi stuzzica un po’ mi fa rabbrividire, un po’ lo cerco un po’ lo allontano. Dipende dai momenti.
Perché ogni volta è come se fosse la prima. Non so se questa regola riguardi solo me, o se sotto sotto, pur faticando ad ammetterlo, ogni professionista sente l’inesorabile ansia da prestazione. Oddio, diciamo che nel mio caso c’è un tantino di masochismo che prevale ma che immancabilmente lascia aperto un varco mostruoso nel profondo del mio io, un varco che si mangia le regole come questa, e insieme anche paure, ritrosie, razionalità e persino disciplina.
Per esempio, non sarei mai diventato un chirurgo, avrei messo in pericolo troppe vite con il mio feticcio, tremo al solo pensiero di trovarmi al cospetto di un corpo insanguinato. Eppure questo tremore mi dà carica, adrenalina, è come al culmine di un atto sessuale, stai per avere un orgasmo, ecco, appena prima ondeggi, sei fuori controllo.
È per questo motivo che ho scelto di fare il poliziotto.
La telefonata arriva alle 14:43. «Signor Commissario, sono Reale. Oggi cominciamo bene. Un senegalese, uomo, sui trenta, ucciso a coltellate in un appartamento disabitato. Il nome della via è… Mah, cazzo, non riesco a leggere questa scrittura infantile, ma chi diavolo fa ancora i ricciolini alle maiuscole? Questo è un manicomio, mica un commissariato».
Sono Reale. Tutte le volte che si presenta mi fa scappare una risatina, tipo quelle degli adolescenti quando gli adulti parlano vagamente di sesso: si guardano e sogghignano, che manco sai cos’è che li ha messi in imbarazzo. Cioè, a me Reale non mette in imbarazzo, è quel cognome che cozza con lui. Del resto, io lo sopporto proprio per quel suo senso di caricatura di se stesso che lo rende unico.
«Reale, non mi far perdere la pazienza. Uomo, senegalese, ucciso a coltellate. E io che c’entro?».
«Che c’entrate, dite…», la risata di Reale trapassa apparecchio telefonico, orecchio, cervello e forse persino il sottile muro del mio bilocale. «Ma come, Signor Commissario, il caso è vostro. Alcuni agenti sono già sul luogo per i primi rilevamenti, aspettano voi per sentire i testimoni».
«Ci sono testimoni, quindi».
«Qualcuno ha fatto una denuncia anonima, una donna; ha detto di aver sentito una puzza strana passando per il corridoio del palazzo, davanti alla porta di quello specifico appartamento. Abbiamo controllato, ha chiamato da una cabina telefonica; in qualche giorno potremmo anche ritracciare la donna, volendo, ma per ora non è una pista valida: probabilmente è solo uno dei tanti inquilini abusivi di quel palazzo e per questo motivo non vuole fare il suo nome. È tutto quello che so, Signor Commissario».
«Va bene, Reale, raggiungo gli agenti. Con calma, eh, tanto il senegalese non se la prenderà».
«Eh, già, Signor commissario, a meno che non si chiami Lazzaro… Ihihih».
«Senti, Reale, sei un bravo ragazzo, ma evita di fare battute, proprio non ti vengono, dai».
«Ehm, va bbuò, va bbuò… Signor Commissario?».
«Sì?».
«La volete sapere la via? Ecché cap’i’cazz’!, io leggo Kelvin Road, 980».
«Ma come, Kelvin Road? Da quando in qua noi napoletani siamo diventati gente di mondo? Nient’i men’ una via in inglese».
«Me par’ stran’ pur’ammé, Commissario. Se è sbagliata, fate un richiamo scritto a Cipullo, quello sì che se lo meriterebbe. E poi… simm’ semp’ stat’ gente e’munn».
«Reale, ogni volta che ti do il la, tu attacchi col dialetto. Per essere di mondo, proviamo almeno a parlare in italiano, dai che ce la possiamo fare, eh! Adesso cerco ‘sta benedetta via, mi bevo un caffè e parto. Tu avverti gli agenti che tra mezz’ora sarò da loro. Bravu guaglion’».
Chiudo l’appartamento e mi immergo nei clacson. Cerco di impostare il navigatore ma la via non la riconosce nemmeno a pagarlo. Maledizione! Reale e Cipullo mi sentono. E anche se non so che cazzo c’azzecc’ Cipullo, sarà lui il primo della lista.
Faccio il numero del commissariato.
«Voglio parlare con Reale!». La mia voce mette soggezione pure a me. Me lo passano con foga. Lui sembra avere il fiatone.
«Signò Commissario. Dite!».
«Reale, la via non esiste. Chiamami gli agenti sul posto e fammi contattare da loro».
«No, no, non ci sta bisogno, Signor Commissario. Mo’ vi passo Cipullo che sa tutto lui».
«E passami chist’ Cipullo, ià! Nun me facite pierdere at’ temp’».
Sento borbottare dall’altra parte del filo. C’è un fruscio strano che mi suona comico. Come quei due agenti che sono poco più che ragazzini e sono ben felici di stare in ufficio tutto il giorno invece di sbattersi in una città malata che stenta a mostrare la sua parte più autentica e calda.
«Comandi, Commissario, sono Cipullo».
«Allora, avanti, dimmi. Dove dovrei andare adesso? Dovresti scrivere a computer se hai una calligrafia incomprensibile».
«Signor Commissario, il nome della via era giusto, Kelvin Road, ma è un nome inventato dagli immigrati che abitano lì. Comunque è nel quartiere Marianella, gli agenti che sono là ci sono arrivati senza problemi. Hanno chiesto di Kelvin Road e li hanno subito portati al palazzone degli immigrati».
«Mmh, Marianella, dici. Non l’ho mai nemmeno sentito questo quartiere. Metterò la sirena, va’. Brav’, brav’, mi piacete quann’ site accussì efficienti. Salutamm’ a Reale».
Il navigatore segnala circa sei chilometri. Faccio come dice lui e sono talmente intento a seguirlo che non mi accorgo nemmeno di quello che mi si para davanti. Più salgo verso nord, più questa città diventa una discarica. Mi metto a pensare che Napoli è il contrario dell’Italia. Perché in Italia più si sale, più tutto prende una parvenza di splendore. Come ricoprire l’acciaio d’oro: ti sembra sia prezioso e invece dopo poco ti tocca ricoprirlo di nuovo perché la ruggine esce. E ricoprirlo ha un costo, e spesso ti chiedi cosa ti cambia farlo direttamente d’oro. Ma no, in Italia si ha bisogno di aggiustare, rattoppare continuamente, perché l’apparenza deve essere lussuosa ma il gioiello una patacca.
Napoli è sincera. Non nasconde questo schifo. Nasconde se mai la bellezza, perché quella sì che è preziosa e devi saperla guardare per capirla. Sarebbe troppo comodo averla davanti, come una puttana che fa i saldi. Niente sconti, la bellezza è per pochi. È per chi ha l’anima che non sente paura. Perché la vera paura non è quella della morte, ma quella dell’amore. E io lo so bene.
Imbocco questa famigerata Kelvin Road immerso in quelle stramberie. Ci arrivo a naso, a spanne, e non credo ai miei occhi. Sul muro non intonacato della prima palazzina c’è scritto a murales proprio Kelvin Road. Vedo il palazzo da lontano: non lo conosco, non ci sono mai stato in questa via di immigrati di ogni razza e nazionalità, ma il palazzone di nove piani si erge con un’ostentata vena sarcastica e si affaccia su questa lunga via chiamandomi a sé.
Il numero 980, eccolo. Parcheggio. La gente mi guarda. Fumano, sputano. Non mollano con lo sguardo. In questo a volte rimpiango i milanesi. Loro ti guardano di sfuggita, con la coda dell’occhio, e se si soffermano per più di un minuto è perché gli manca qualche venerdì.
Entro col distintivo in mano, mi preparo con un lungo sospiro per calmare i nervi, fingendo di detestare ciò che vedrò dentro quell’appartamento fatiscente, e sentendo intanto una strana vibrazione per tutto il corpo.
da Manuela
L’eccesso è anche questo. Lasciarti sospesa
Sai che posso arrivarti, anche se sei così lontana, e non è solo una diceria primitiva. Tu sai che io posso. Posso arrivarti. Siamo una di fronte all’altra. La tua pelle che è sempre stata più liscia della mia. La tua pelle che mi fa arrapare. E uso i polpastrelli. Per scorrerla. Sentire il seno. Polpa. Morbida. E i capezzoli. Ci giro attorno. Sono sempre all’insù. Ecco. I tuoi muscoli iniziano a cedere. Lo sento che sei rilassata. Ti sdrai. Sospiri. E mi inviti. Inarchi la schiena. Sollevi il grembo. Mordi il labbro. Quei denti. Che adoro. Sanno come fare. Cosa vuoi, cosa? E non rispondi. Miele. E tu, impaziente. Ti percorro ancora. L’ombelico. E sotto. Più sotto. Lieve peluria. Sfioro petali. Consistenza carnosa. E annuso. Loto. Che esali. Che inalo. E non voglio di più. L’eccesso è anche questo. Lasciarti sospesa. Fa male. E mi piace. E disegno nell’ombra del tuo sesso, l’attesa. Disegno questa linea. Che è come la mia. Invisibile e filamentosa. Di piacere sperato. Si può cancellare. Sussurro. Si può cancellare con la saliva di una bocca. La mia.
da Chiara
Too Many Words
Troppo. Parla troppo.
Non smette mai, da quando apro gli occhi a quando li chiudo la sera. Faccio finta di dormire, anche se non ho sonno. Purché taccia un secondo, sono disposto a mentire.
Rumore di fondo, balbettii e grugniti continui. Una pentola che bolle e ribolle senza tregua. Troppo.
Così dannatamente troppo che le parole scappano via come lepri e io non le comprendo neanche più, ribollono e scoppiano come bolle fangose con un tonfo, per poi ricominciare. Si formano, gonfiano, esplodono, plop. Ma forse è il mio cervello che fugge atterrito appena le labbra si schiudono, le guance si dilatano e trattiene un istante il respiro, come per prendere la rincorsa prima di un salto. Sono questi i segnali e lo so, lo sento, lo vedo: inizierà a breve il prossimo, inesaurito discorso. Senza alcun senso.
Troppo, per me che vorrei solo un po’ di silenzio. Un attimo solo, qualche istante appena per riposare le orecchie, i timpani, la staffa, l’incudine e il martelletto.
Vorrei ascoltare il niente, riuscire a sentire il leggero fischio del silenzio che incombe. Regalatemi un soggiorno in una camera senza rumore, quelle sperimentali, per Dio!
Una settimana, un paio di giorni, anche solo un’ora con l’illusione di essere sordo, le orecchie inattive e insensibili. Ve ne prego.
Parla troppo. Il cane, il gatto, la cena, il criceto, la politica interna, il gossip, le calze smagliate, il film, il libro, la madre, la cugina della sorella della zia del collega, la pasta scotta, la pasta cruda, il sugo di funghi o quello di melanzane? E sul caffè, vogliamo discuterne? Arabica o robusta, napoletana, moka, espresso, caffè americano, e la cialda e i chicchi e chi se ne frega, datemi un caffè qualunque e lo bevo, mica mi perdo in tutti questi problemi, dettagli, minuzie. Non è necessario sviscerare ogni singola mica di pane. Non me ne frega niente!
Troppo. È troppo, tutto troppo, troppe parole, troppi argomenti. Io non lo voglio sapere, non mi interessa, non è necessario iniziare a parlare, a pensare, a verbalizzare la mattina alle sette quando si aprono gli occhi e continuare, senza tregua, fino alla sera.
L’altra notte mi sono svegliato alle tre. Un suono ha rotto il silenzio, la pace, quell’attimo senza sogni in cui non esisto. L’unico fottuto momento in cui mi sento bene, cazzo. E lei? Parlava nel sonno. Frasi sconnesse, senza significato. Ma erano frasi, parole, suoni slabbrati che, nella notte, suonavano come le trombe di Gerico e di quello là che non mi ricordo che diavolo ha fatto. Oh, se solo avessi mormorato “Gerico”, cercando di inserirmi in quell’autostrada intasata di sillabe, consonanti e vocali accatastate come covoni di fieno, allora sarebbe certo partita come un dannatissimo razzo a spiegare, raccontare, cercare, collegare, disambiguare. Una cazzo di fottuta wikipedia con i piedi.
Che vuole che le dica? L’ho spenta. Con un cuscino, ho cercato di abbassare il volume, di avere un attimo di dannato silenzio. Almeno di notte. Non si è più riaccesa. Che pace.
Ispettore, che dice, mi daranno le attenuanti generiche?
da Gianluca
Da un eccesso all’altro
Per colpa del Covid anche quest’anno niente Capodanno in piazza.
Nonostante la terza dose, dovremmo rinunciare ai festeggiamenti all’aperto.
Napoli è stata una delle ultime metropoli europee a sposare questo modo di salutare il nuovo anno.
Fino a pochi anni fa, nessun napoletano si sarebbe mai sognato di rinunciare al tradizionale cenone di fine anno, al count-down prima del brindisi, alla batteria di fuochi da sparare solo per far crepare d’invidia il vicino, al lancio di piatti e bicchieri vecchi dal balcone per liberarsi delle cose vecchie come l’anno che è appena finito, al trenino coi parenti ubriachi al grido di “A, E, I, O, U, Y”, alle lenticchie mangiate con le mani che simboleggiano tutti i soldi che arriveranno nell’anno nuovo.
Capodanno è sempre stato il simbolo degli eccessi: si beveva e si ballava tutta la notte per paura che il nuovo anno fosse uguale a quello appena concluso.
Si festeggiava tutti insieme nella speranza che l’anno nuovo ci avrebbe portato qualcosa di positivo.
La pandemia ha cambiato anche il senso di questo termine così bello e, anche quest’anno, lo passeremo tutti a casa!
Rispetto all’anno scorso non ci saranno limitazioni sul numero di partecipanti e nemmeno l’odiato coprifuoco alle 23 che ci costrinse a passare l’ultima ora di quel tragico 2020, anziché coi nostri genitori, con Amadeus e il gruppo di vecchie glorie che animano “L’anno che verrà” su Rai Uno.
«Vedi il lato buono della cosa», mi dice all’improvviso mia moglie «è il 31 dicembre e siamo tutti per strada».
«Fare la fila fuori alla farmacia non è esattamente la stessa cosa che festeggiare il capodanno in piazza», rispondo stizzito e vorrei aggiungere tante cose ma preferisco tacere.
Per il cenone di quest’anno, mio cognato, ex no-vax (ha cambiato idea dopo che il virus l’ha quasi mandato in ospedale), ha preteso un tampone molecolare per tutti.
«Il tampone serve a farci stare più tranquilli», aggiunge la mia dolce metà.
«La cosa che mi fa più incazzare è proprio questa: con il booster già fatto da oltre un mese, devo fare la fila per un tampone come un no-vax qualsiasi?», sbraito ad alta voce.
«Cenone al ristorante pure voi?», mi chiede l’uomo che mi precede in questa interminabile coda.
«No», s’intromette subito mia moglie. «Siamo a cena da mio fratello».
«Ho un cognato molto scrupoloso», aggiungo sforzandomi di sorridere e leggo negli occhi dell’uomo la sua compassione.
«Almeno vi rimborsa il costo del tampone?», domanda lui credendo di essere simpatico.
«No», sono pronto a rispondere. «Oltre a essere scrupoloso, è pure parsimonioso, mio cognato, ma gli vogliamo troppo bene per non trascorrere questa festa insieme a lui».
«Se il tampone esce positivo, ci facciamo un bel capodanno da soli, io e te», ringhia mia moglie.
«Potreste esserlo tutti e, in quel caso, non ci sarebbe nessun problema», aggiunge impavido l’uomo che da oltre due ore è in fila -come noi – davanti a questa maledetta farmacia.
«Lei dice che potremmo fare un cenone di soli positivi?», chiedo, mentre con le mani in tasca cerco di grattare i gioielli di famiglia in segno scaramantico.
«Perché no? Un veglione-quarantena che duri tutta la notte e ci aiuti a sentirci meno soli».
da Giorgio
Guardami
Guardami. Non è abbassando lo sguardo che allevierai il peccato.
Ascoltami. Se siamo qui, ora, il destino non c’entra affatto.
Siamo noi ad averlo scelto. È una nostra responsabilità. Sappiamo entrambi che è sbagliato. Ci hanno cresciuti così, ci hanno insegnato che non si mente, non si tradisce, non si deve cercare il peccato. Eppure, ora siamo qui, ti svesto, sbottono la camicetta, slaccio il reggiseno e ti bacio. Ti sfioro la fronte, poi scendo lungo le guance fino alle labbra, le mordo dolcemente. Poi il mento, il collo, la spalla. Tremi ma non fai niente per fermarmi. Stendo le mani bollenti sulla tua schiena nuda e scendo sul seno che mi concedi. Tremi. Ti stringo, affondo una mano fra i capelli, risalgo verso la bocca, cerco la lingua.
Guardami. Ne hai voglia quanto me. Posso leggerti la mano, decifrare ogni contrazione delle labbra. Ogni centimetro di pelle mi parla. Perché non l’ascolti? Anche tu mi vuoi, guardati. Hai le guance rosse, le mani calde, le gambe che tremano. Ascoltati. Il cuore sembra un masso che rotola dalla montagna. T’investirà, non hai scampo. Accarezzami, lo so che ne hai voglia.
Non abbiamo molto tempo, non ce n’è mai abbastanza. Fra poco qualcuno busserà e dovremo fingere ancora. Nascondere le nostre anime sporche.
Ti slaccio i jeans, li abbasso fino alle caviglie, sono chino, il viso fra le tue gambe. Non fermarmi, non c’è tempo per pensare, c’è spazio solo per il peccato. Mi sfilo la maglia, le scarpe, i pantaloni, ti spingo sul divano. Ti spoglio completamente. Stavolta parto dai piedi, con le labbra e le mani, vorrei fondermi, diventare un tutt’uno con il tuo corpo. Affondo, spingo, gemi, inarchi la schiena, allora spingo ancora, mordo il collo, affondi le unghie sui fianchi, la pelle si lacera, mi lascerai i segni. Sento un liquido caldo colare verso le natiche, vorrei prenderti a schiaffi, gemi, allora spingo più veloce. Non abbiamo molto tempo, fra poco qualcuno entrerà e noterà la stoffa del divano stropicciata. Spalanchi la bocca poi la richiudi e ti mordi il labbro, e spingo come un forsennato. Un movimento ritmico, e il respiro ci si accorda. Mi sollevo in piedi, tu mi circondi con le gambe, ora non trattieni più la voce. Ci sono macchie di sangue sul divano scivolate dai miei fianchi, sudore che s’impasta, e l’odore tipico del vizio. Mi baci e mi odi, lo comprendo. Anch’io ti odio. Non posso amarti, per questo ti odio. Ci vestiamo in silenzio. Non guardarmi, non ascoltarmi, ci odieremo per quello che abbiamo fatto, e questo sentimento ci legherà per sempre.
Ecco… Bussano. Smettila di guardarmi.
da Caterina
Bolle
Sono in un cantuccio del focolare, presso il muro nero di fumo. Guardo il fuoco, ma non lo vedo, il mio sguardo oltrepassa le fiamme e vola verso le bolle. In ogni bolla un sogno: le mie bolle, i miei sogni.
Mi passano accanto i tristi pensieri, si stringono nelle spalle, non sanno cercarmi, si dirigono altrove. Non mi curo di loro, io seguo le mie bolle, volano leggere: si affollano si disperdono e mi portano tra i loro colori in quegli spazi che non so. In ogni bolla un giorno, un momento, un attimo non vissuto. Ci sono gli errori e le paranoie, ma anche le gioie. Sì, le gioie del mio stare solo vicino al focolare, un pezzo di pane e una zuppa mi bastano.
Tante bolle sono fatte di pane e formaggio, altre sono fatte di zucchero e miele, le mie preferite hanno il sapore della libertà, quelle più amare portano con sé il rimpianto. Vorrei che tre di loro si fermassero sul palmo della mia mano, vorrei sentirle scoppiare mentre le stringo, vederle entrare nella carne e soffiarmi nuova vita.
Ma le bolle di un sogno sono fatte come me, inconsistenti e leggere, preziose e vitali, effimere parti di un mondo irreale che porta con sé ciò che resta di me: quell’ombra di un sogno vicino al focolare.
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