Le opinioni superbe . SUPERBIA
L’identità, perché…
In 31 Marzo 2022 da Redazione Seven BlogArriva la primavera e i nostri dubbi sul significato di identità si fanno sempre più corposi. Ma è davvero così? Con quali parole la possiamo descrivere? Il tema di marzo 2022 è identità: noi ne scriviamo raccontini superbi…
da Debora
Bianco e nero
Mi guarda col volto immerso nella nebbia. In questa foresta che non trattiene il nostro odore, che non ci chiede scusa per averci fatto perdere. Lei corre, scappa da me. Ogni tanto si gira. Non mi vede, lo capisco da come vaga con gli occhi, da come cerca un punto su cui posare le sue certezze. E invece il buio la inghiotte e la nebbia la copre. Corre con quel velo bianco che la rende irriconoscibile.
«Serena, fermati. Serena, dove scappi? Torniamo a casa, bambina, non allontanarti ancora o non ti troverò».
Lei sparisce di tanto in tanto, si dissolve nell’aria umida, nel nero profondo che non può contenere i nostri corpi. Li divora, li assorbe, li risputa.
Perché i nostri corpi sono fatti di ricordi e di peccati. Di quella sostanza melmosa che li compone, sono torbidi e inconsistenti, scivolano nel tatto e si disperdono nella terra.
«Quando eri lì, in piedi, con quella pistola puntata contro la tua tempia, io ho pensato: fallo. Non ho mai voluto ammetterlo, Serena, ma io l’ho desiderato. Perché tu mi hai trovato per odiarmi, per entrare di nuovo in una vita che io avevo scelto di scacciare come un verme che ti ritrovi nella mela mentre la stai morsicando. E mi hai imposto la tua vita, mi hai imposto un ricordo. Hai voluto che io ti chiedessi scusa per il male, per tua madre, per il rifiuto. Per l’abbandono. Ma io non vedevo il male, non vedevo il rifiuto. Vedevo una difesa, vedevo un me stesso col cuore troppo storpio per permettergli di decidere.
Ho amato Ingrid più di chiunque altra donna. È stata l’unica forse. Io non sono certo di saper amare, ma con lei mi sono sforzato di impararlo. Non mi aveva dato scelta, con lei nulla era impossibile e tutto andava imparato. Ingrid era libera, era un gabbiano, un raggio di sole. E poi diventava all’improvviso una tempesta, un vento, un fulmine. Ingrid era energia. E io non ero niente. Lei ha solo sperato che io fossi un po’ quello che credevo di essere. Ma sperare lascia solo amarezza.
Ingrid era quella che danzava in una grotta a Granada, io quello che la guardava bevendo un vino bianco caldo. Quello che non aveva il coraggio di accompagnare la musica che la rapiva, il suo corpo che non conosceva pudori. E così guardavo il soffitto, in quel semibuio nostalgico, in quel caldo mosso da una ventola sbilenca. Lei viveva e io morivo. Era il nostro destino.
Vuoi che ti racconti, Serena? Vuoi davvero sapere di tua madre? Vuoi sentire le mie parole disperate, lanciate ora in aria, in questo buio umido, in questa foresta che non ha nulla a che fare col sole che lei emanava? Perché era un sole accecante il suo, Serena, ma era anche la più grande beffa che potesse vestirsi addosso. Una donna-sole che cercava l’ombra negli altri, guardandoli, analizzandoli come animaletti da esperimento. E io mi sentivo sempre sotto quella lente di ingrandimento che non rappresentava le mie proporzioni. Non ero io del tutto. Non ero io quando l’ho vista la prima volta, seduta sugli scaloni dell’università dove lei si è laureata e io no. Lei era così ammaliante, così sicura con gli altri. Si muoveva senza vergogna, si metteva in mostra, e forse per questo, quel mattino esisteva solo lei. Non ho potuto non vederla.
Non gliene fregava niente di me, sai? Non mi ha nemmeno guardato, com’era logico. Lei era oltremodo tutto. Io ero un giovane già vecchio che poi del resto così è rimasto, senza mai maturare veramente.
Si è interessata solo alla mia fotografia, qualche mese dopo, a quelle macchine medio formato che avevano una forma strana, diceva lei, perché dovevi guardarci dentro dal pozzetto in alto. Ma la forma era come la mia, fuori luogo e fuori tempo; poteva sembrare affascinante a prima vista, finché poi scoprivi che non nascondeva nessun segreto.
Una sera era brilla. L’avevo fotografata per due ore e poi avevamo bevuto un vino portoghese, un vino verde, di cui non conoscevo nemmeno l’esistenza. Lei mi aveva insegnato anche a bere vino verde. Mi si è seduta sulle gambe e ha detto che era ora che facessimo l’amore. Da allora per quarantasette giorni, l’abbiamo fatto ovunque. Il sesso era per lei un canale immaginario con cui mettersi in mostra. Lei non vedeva me, era solo attratta da sé stessa, dal fluire dei suoi desideri, dall’immagine di questo fotografo che teneva il tempo deciso da lei come meglio poteva.
Quarantasette giorni è durata, Serena. E tu quanti ne hai di giorni per dar voce ora a queste parole rimaste nella gola?
L’ho vista dopo un anno, non ricordo bene. Portava una carrozzina che sembrava passata attraverso ogni sorta di tempesta. Era svogliata, non emanava altro che grigio. Ho tentato di chiamarla ma era dall’altro lato della strada e non ha sentito.
O ha fatto finta di non sentire. Lei mi aveva già detto di essere rimasta incinta, dopo venti giorni dalla prima notte insieme. Non era vero. Diceva che mentiva spesso su quello, usava la presunta gravidanza come un’arma per tenere gli uomini a sé. Io mi sono chiesto il perché di quelle messinscene continue, senza però chiederlo a lei. Forse voleva semplicemente confessarmi che gli uomini tendevano a scappare da lei, voleva mettere in guardia anche me. Lo ripudiavo in quel momento, ma ne capivo il motivo. Pian piano cominciavo a capire tutto. La sua sete di vita era una lotta contro l’istinto di morte, Serena.
Quando per la seconda volta mi ha detto di essere rimasta incinta, io non le ho creduto. Perché ormai io non volevo più amarla.
Io, un uomo fin troppo normale, ero già entrato nella logica di quella presunzione sprezzante che mi sussurrava che lei mi stesse ingannando per riportarmi a sé. Era lei la più forte, era lei che aveva le carte giuste per vincere la partita, eppure io avevo già deciso di chiuderla, mischiare tutto il mazzo e tanti saluti.
Ingrid mi ha spezzato in due parti uguali. Fuori ero identico. Dentro ero un omino bianco e un omino nero. L’omino bianco decideva, l’omino nero cercava di ascoltare. Spesso dimenticava. Raramente controbatteva. Lei non poteva amare un uomo bianco. Tu non potevi conoscere il nero.
Ci ho provato, Serena, cosa credi? Credi che io non abbia cercato ardentemente di tenere quel passo di danza? Credi che io non abbia desiderato vivere d’arte? I due libri che tu hai letto non parlano di me, non sono me, sono stati scritti dal dottor Zeta, un uomo migliore. Sono un segno inconscio e postumo di fedeltà a Ingrid, a una donna che non sarebbe mai più tornata, era un dirle: sono come tu mi vuoi, ecco la prova.
C’è sempre una scelta, Serena, ma io non la sapevo vedere. Ho preso la sua morte, il suo suicidio, come una colpa. Una colpa non mia, però. Una colpa della ricerca di follia di Ingrid, per la quale ha annientato anche me.
Piango, Serena, piango per lei, piango per te. Piango l’amore che non ho voluto vivere, la passione che ho rinchiuso in un cassetto insieme a quelle macchine fotografiche che ricordano ancora il suo corpo abbronzato. Piango quella pistola che hai tenuto fra le mani e che hai lanciato a terra, in quella terra polverosa, perché hai deciso di provare a vivere. Piango il tuo volto che forse non rivedrò mai più perché tu me lo neghi. Piango questo rispetto, perché dovrei incazzarmi e abbattere quel muro. E spiegarti questo padre che non so nemmeno io che forma abbia, questo uomo che comincia pian piano a sentire la colpa. Questo insegnante che non sa imparare.
Serena, voltati. Torniamo a casa. E vivi. Viviamo».
Lei si volta. Non è più Serena. È una ragazza nuova, una ragazza fragile, un bruco in cerca di due ali. È la ragazza Ics e mi sorride. Mi tende la mano. «Andiamo, dottor Zeta, il destino è nostro».
da Fabio
Sonno
Richard dormiva poche ore per notte, o almeno immaginava che fosse così. Non voleva coricarsi la sera, temeva di aver buttato la giornata, non voleva alzarsi al mattino, per buttarla, la giornata.
Una scelta a volte, sai, può cambiare tutto ma non immagini cosa significhi, ora dopo ora, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno.
E così si svegliava poco prima dell’alba: si girava e rigirava in quel terribile dormiveglia fatto di incubi, paure, battiti accelerati; a nulla servivano gocce, tisane, tranquillanti, terapie.
Univa le braccia, in quel gesto che dicono essere di ostilità se non solo di chiusura verso l’altro. Ma non c’era nessuno presente, era un gesto di protezione verso il mondo che pensava di rendere migliore, ma alla fine era solo un inutile, se non patetico, tentativo di proteggersi.
La sveglia del cellulare iniziava a risuonare, come invito, come ordine a non arrendersi, ad andare avanti nella speranza che tutto si risolvesse.
Toc toc, rimandava la porta: buongiorno, Thomas; dobbiamo cambiare indirizzo.
Thomas, già, ora era questa la nuova identità.
da Chiara
Nella nebbia
Mi sono svegliata in un posto che non ho mai visto prima.
Con persone mai viste prima.
Dove sono? Cosa sono queste quattro mura bianche, l’armadio chiaro e un letto che non ho mai conosciuto?
Dove mi avete portato? Come ci sono finita?
Mi sono svegliata nella mia casa.
Mi sono svegliata ed è entrata in camera la badante che sta sempre con me, trillando buongiorno con falsa allegria.
Sono in casa mia, nel mio letto, tra le mie quattro mura bianche e l’armadio di legno chiaro. Io abito qui, è il mio guscio. Questa casa sono io.
Io non lo so, non lo so, non lo so cosa succederà quando mi sveglierò domani mattina. Se ancora saprò il mio nome, dove abito, quello che avrò mangiato a colazione. Se, uscendo dalla nebbia, sarò da qualche altra parte, minacciosa e scura, dove nulla è familiare.
La nebbia. Prima quasi non ci badavo. Arrivava ogni tanto e subito andava via, e io lo sapevo, chi ero e che cosa, tutto quello che ho fatto nella mia vita e ciò che volevo. Adesso mi avvolge sempre più spesso ed è fitta, si appiccica intorno al cervello e mi perdo. Sono perduta da qualche parte che non so, senza ricordi. Non ci sono più le facce che conoscevo. Altre hanno preso il loro posto e io non le ho mai viste. Devo uscire di qui, andare via, voglio tornare a casa. Ma c’è nebbia, tanta nebbia.
Cosa mi sta succedendo. Io conosco il mio nome, la data di nascita, ricordo la casetta bianca dai muri scrostati da cui si vedeva un mattone ogni tanto, e i partigiani con i fazzoletti e i fucili, la campagna e il paese, ricordo mia madre e mio padre. Ricordo tutto di me, quando non c’è la nebbia.
E poi arriva di nuovo, in silenzio, come a novembre saliva dalle colline umide dalle zolle smosse e spesse di umidità. E in quella nebbia mi perdo, sempre più spesso.
Come mi chiamo, io? E tu, che mi guardi disperata, dolente e smarrita reggendo un bicchiere con una mano, una pasticca nell’altra, chi sei? Mia figlia, dici? Ma io non ho figli, non ne ho mai avuti. Non so, non ricordo. Io, chi sono?
da Gianluca
Bug
Lo scarafaggio era in piedi davanti al distributore di bevande calde.
Quando finì di sorseggiare il caffè, tornò stancamente al suo ufficio. Percorse un lunghissimo corridoio dalle pareti bianchissime. Il ticchettio dei suoi passi era l’unico rumore che rimbombava in tutto l’edificio.
Lo scarafaggio entrò in una stanza piena di monitor e andò a sedersi alla sua scrivania.
Una luce rossa iniziò a lampeggiare, emettendo un segnale acustico assordante.
Lo scarafaggio, in preda al panico, raggiunse velocemente il monitor in allarme, dove c’era scritto:
#aurora85 a #bellantony > Se questa volta non mi rispondi, giuro che non mi collegherò mai più. Ne ho abbastanza delle tue scappatelle. Ora basta!
Lo scarafaggio tornò velocemente al suo posto, scrisse “BELLANTONY” su un foglio e uscì correndo dal suo ufficio. Raggiunse una porta, dove c’era scritto “BLOOD DATABASE” e quando vi entrò, consegnò il foglietto alla zanzara.
La zanzara raggiunse velocemente uno scaffale dal quale prese una provetta contenente sangue umano, ne fece cadere una goccia sul foglietto e lo consegnò nuovamente allo scarafaggio che, senza nemmeno salutarla, uscì di corsa sul corridoio.
Lo scarafaggio raggiunge velocemente una porta, dove c’era scritto “PASSWORD”, entrò in quell’ufficio e mostrò il foglietto alla mosca. Dopo averlo annusato, la mosca raggiunse uno schedario, aprì l’ultimo cassetto e ne estrasse un foglietto rosa che riportò velocemente allo scarafaggio.
Lo scarafaggio ritornò di corsa nel suo ufficio, prese una tastiera dalla sua scrivania e raggiunse il monitor in allarme. Dopo aver collegato la tastiera al monitor, cominciò a digitare qualcosa:
#bellantony a #aurora85> Certo che ti rispondo. Per te ci sono sempre.
Dopo un interminabile minuto, finalmente sul monitor apparve la scritta:
#aurora85 a #bellantony > Mi hai fatto preoccupare. Lo sai che non posso vivere senza di te. 3> 3> 3>
L’allarme finalmente si spense e lo scarafaggio tornò mestamente al suo posto proprio nel momento in cui il suo telefono iniziò a squillare.
«Ottimo lavoro, Bug» disse la libellula dall’altro capo del telefono.
«È stato un lavoro di squadra, Boss» rispose lo scarafaggio.
«Ho ringraziato anche gli altri. Aurora85 era un utente che non potevamo assolutamente perdere».
«Gli umani sono prevedibili, Boss. Usano la stessa password per tutto».
«L’importante è che non lascino mai i social. Solo così riusciamo a fargli credere che abbiano il controllo assoluto del pianeta, Bug».
da Giorgio
Che io sia…
Che io sia cilindro o pistone, treno o binario, ostrica o perla, che io sia il primo giorno di pace o l’ultima notte di guerra…
Che io sia nuvola o pioggia, pensiero o presenza, foglio o inchiostro, parola o silenzio, che io sia vino limpido o torbido mosto…
Che io sia il passo o l’impronta, chiodo o martello, fuoco o legno, fontana o secchio, che io sia la verità che mi racconto o quella riflessa nello specchio…
Che io sia montagna o neve, pentagramma o nota, luna o marea, che io sia d’ogni cosa tutto, e quel tutto che sia in ogni caso frutto delle mie azioni, non ha importanza.
Sarò sempre il tutto di metà.
Ecco cosa sono, l’ossimoro di un dio sadico e beffardo, la sua opera compiuta incompleta. Che io sia fiume o mare non ha importanza, se quel dio che mi governa m’impedisce di congiungermi alla foce.
Ecco cosa sono, l’eco di un canto d’amore senza voce.
da Caterina
Avatar
Vivere in situazioni estreme era sempre stato il suo sogno. L’ultima esperienza lo aveva esaltato più che mai, per dieci giorni era rimasto da solo tra le nevi dell’Himalaia. Ora lo attendeva una nuova avventura: la foresta equatoriale.
Il fischio degli uccelli, l’urlo delle scimmie in lontananza, la consapevolezza che l’anaconda verde fosse di casa nell’intrico della folta vegetazione gli procuravano brividi di intenso piacere che correvano lungo la schiena e si concentravano sui polpastrelli che, rapidi, scivolavano sulla tastiera.
Sentì alle sue spalle un rumore di rami spezzati, un’onda di calore gli attraversò la schiena. Rimase fermo, immobile, qualsiasi gesto poteva essergli fatale, gli era rimasta una sola vita. A un tratto il buio: game over, game over…
Porca miseria, il suo avatar aveva perso la sua ultima possibilità di continuare la missione!
Sebbene profondamente deluso non si perse d’animo, nel buio della sua stanza attese che il gioco ne ricaricasse un’altra… un hikikomori ha molto tempo a disposizione… prossima missione… Marte.
da Claudia
Foto ritratto
Ho tre foto ricordo di te.
Fanno rumore, creano movimento, hanno loro voce. Urlano stronza, affascinante, vanitosa, seducente, maleducata, superba e sfuggente.
Fuggi come il fumo che esce dalla tua sigaretta, nella foto con figura in contrapposto dove guardi fuori dalla finestra. Fossette di venere sulla schiena con lo scheletro di pollici non miei.
E un tanga fila appena il fondoschiena, lasciando vedere tutto quello che vuoi mostrare tu.
Accarezzi con la punta delle dita le tende nere, colore della canottiera corta, e un capezzolo sporge accendendo desiderio.
Ti si ama o ti si odia, questa è la tua maledizione.
Ho due foto ricordo di te. Sdraiata su una poltrona di caramello, di un appartamento in bianco e nero che sa di periferia: le gambe abbronzate s’incrociano nude. L’elastico fine di mutandine bianche alimenta un’immaginazione già andata oltre i confini del paesaggio che s’intravede dalla veranda.
Tra le mani tieni una rivista. Lo sguardo non si vede. Il naso alla francese rende più ingenua la tua figura che d’ingenua non aveva niente.
Le labbra arricciate hanno la forma di un cuore, quello che disegnano gli innamorati nei loro diari d’amore.
O ti si ama o ti si odia, questa è una pena capitale.
Ho una solo foto ricordo di te che mi resta da descrivere. Girata di spalle, giochi di luci creati dai chiarori del mattino svelano il disegno lungo la tua schiena: boccioli si schiudono in un’ostentata sicurezza.
Se i raggi del sole si uniscono, insieme svelano l’incastro perfetto del tuo puzzle imperfetto.
Ti si ama e ti si odia, questa è la mia maledizione.
Stiamo progettando una rivista letteraria per aiutare le nuove voci a emergere. Abbiamo sempre la stessa vision: diffondere cultura e talento.
Sostieni il progetto e diventa un* Sevener!
Post Views: 73
Navigazione
- HOME
- AltreStorie di Neó
- IO E IL DOTTOR ZETA, LA RAGAZZA ICS ED IO
- SOSTIENI SEVENBLOG!
- NEWS
- LETTERATURA&SOCIAL
- CRONACHE DA SOTTILIA
- CATTIVICONSIGLI
- LE STORIE DI MICHELANGELO
- EMPATICAMENTE
- I Podcast
- AudioRacconti
- SPECIALE QUARANTENA
- SEVEN BLOG
- AREA MANOSCRITTI
- CHI SIAMO
- CONTATTI
- Privacy Policy
- SOSTIENI SEVENBLOG!
Consigli
Articoli recenti
- La caduta di un Impero e la caduta di un padre 13 Gennaio 2025
- La discutibile cena di Billy e Maya 8 Gennaio 2025
- Quello che provo nel vederti 7 Gennaio 2025
- Prima dell’alba 5 Gennaio 2025
- Oro 31 Dicembre 2024
Lascia un commento