
Le storie superbe . SUPERBIA
Particelle di nulla
In 15 Novembre 2020 da Chiara MenardoAppoggia una mano allo stipite e si perde oltre il vetro, nel buio che ha invaso il cortile. Non ci sono stelle, né luci.
Solo la notte che avvolge ogni cosa.
Stringe le palpebre, come se servisse a qualcosa. Non una luce fuori, non una all’interno.
È arrivato alla finestra tentoni dopo aver spento le lampade in tutta la casa. La sua piccola casa: il vago odore di carta, polvere, sudore e caffè che ha intriso ogni angolo; la camera da letto, la cucina, un bagno minuscolo; un salotto in cui ha smesso da tempo di entrare; uno studio ingombro di fogli e libri impilati un po’ ovunque, tra scaffali pieni di polvere, il tavolo in cui i tarli hanno disegnato costellazioni nel legno, una sedia imbottita in tessuto, un tappeto consunto, la sua amata poltrona, il tavolino e l’abat-jour che emana una luce verdognola così riposante: aloni rotondi color latte e menta. Il labirinto di idee lo chiama; conosce a memoria ogni ansa e anfratto, sa dove riposa ciascun foglio scarabocchiato nella sua calligrafia fitta e minuta dai caratteri spigolosi come aghi di pino. Sa, senza bisogno di pensarci troppo su, il punto preciso in cui ha lasciato ogni suo quadernetto. Gli appunti, gli articoli e le poesie, tutti i suoi pensieri, ragionamenti e follie.
Osserva il buio. Ovunque volga lo sguardo, c’è solo il nero: così dev’essere lo spazio profondo, quello in cui regna il vuoto freddo e assoluto che oltrepassa ogni immaginazione.
Da un po’, il vuoto lo affascina. Riempie i suoi tempi e i pensieri, lo invade come una marea che sale e sale ancora, fino a coprire la spiaggia. Scuote la testa: “Controsenso – mormora tra sé –. Il vuoto che riempie…” ridacchia, tra il buio e il silenzio.
Si accarezza i capelli ormai rari e grigiastri, come un lenzuolo vecchio lavato troppe volte, con la mano così magra da sembrare una zampa di pollo con due dita di troppo.
Anche gli occhi non sono quelli di una volta. Lui non è più l’uomo di un tempo, riflette.
Si sta restringendo, un giorno dopo l’altro: forse è questa l’origine della sua nuova ossessione. Dove sono andati a finire i suoi muscoli, un tempo possenti? Rattrappiti, sfilacciati. Scomparsi.
Il suo metro e ottanta? svanito; la vista, una volta così acuta, adesso stenta a mettere a fuoco le pagine di un libro anche quando porta gli occhiali; dove sono le sue mani grandi e forti, capaci di sollevare casse piene di libri senza sforzo, di sollevare lei come se fosse un fuscello avvolto in abiti a fiori o cappotti cammello?
Dov’è andata, lei?
Forse è perduta nel vuoto e lo sta aspettando da qualche parte. Una particella di nulla che sussurra il suo nome e lo chiama: gli sembra di sentirla sempre più spesso. La sua voce gli risuona nel cranio così forte che talvolta si gira a cercarla, si alza dal letto in mezzo alla notte e apre ogni porta. Forse è in bagno, oppure in cucina, chissà. Quante volte, prima che lei partisse per andare in quel posto dove lui non la può ancora raggiungere, allungando la mano non la trovava al suo fianco nel letto e allora si alzava senza fare rumore e rimaneva in silenzio a spiarla da dietro la porta, mentre lei beveva un bicchiere di latte in cucina sbocconcellando un biscotto o un pezzo di pane, seduta a tavola davanti al frigorifero aperto, alle tre del mattino?
Se n’è andata un giorno di aprile. Il sole splendeva e iniziava a fare più caldo: la sua stagione preferita, la primavera. Era solita dire che l’anno non inizia a gennaio: Capodanno, quello vero, è il ventuno di marzo, quando i giorni si allungano e l’erba perde la timidezza della fine d’inverno e comincia a spuntare, decisa e impertinente. E poi arrivano i fiori e le rondini, – gli ripeteva sognante – e potremo finalmente passeggiare nel parco sotto gli alberi carichi di gemme e foglie giovani cercando scoiattoli e passeri. Era gioia e rifugio, forza e allegria. Lei era tutti i suoi pensieri più belli, la promessa mantenuta di una vita diversa, mai uguale a se stessa, che lui da solo non avrebbe mai nemmeno osato sognare.
Era andata via una mattina d’aprile in una stanza bianca, slavata, un comodino di formica grigia e le lenzuola ruvide. Le aveva tenuto la mano mentre stringeva gli occhi e le lacrime, scuotendo la testa in silenzio: dopo tutti quegli anni in cui aveva osservato ogni angolo del suo corpo, ogni sua espressione e pensiero, non aveva avuto il coraggio di stare a guardare il suo ultimo respiro.
Non se lo è mai perdonato; come se l’avesse tradita, abbandonata all’ultimo istante, non l’avesse accompagnata a prendere il treno, come se l’avesse lasciata da sola nel momento più duro e importante di tutta la sua lunga esistenza.
Dove sia andata, non sa. Se credesse in qualche Dio, uno qualunque, potrebbe immaginarla in un Paradiso tra i tanti che gli uomini hanno creato per regalarsi conforto. Ci aveva anche provato, quando il dolore si era fatto troppo pesante per portarlo da solo. Sedeva tra i banchi deserti delle chiese, guardando ora le grandi croci di legno che dominavano sopra gli altari, ora le candele che bruciavano lente davanti a Madonne dal viso soave e alle statue di santi che non conosceva, supplicando un miracolo, un segno, qualsiasi cosa lo potesse aiutare. Aveva parlato con preti, rabbini e perfino sciamani, aveva pianto implorando la grazia di lasciarsi andare a un abbraccio più grande, che potesse spiegare e lenire il dolore: qualcosa, qualcuno – vero o falso che fosse, non aveva importanza – in grado di ricucire gli squarci profondi che si erano aperti all’improvviso nell’anima. Ma niente, non aveva avuto fortuna o risposte.
Un frammento di nulla che lo chiama la notte, ecco come la immagina mentre osserva il buio fuori dalla finestra, accarezzando lo stipite in legno dalla vernice che ormai, dopo tanto tempo, viene via a scaglie.
Ha letto tanto e insegnato. Ha riflettuto e chiesto a chiunque potesse dargli risposte, conferme, confutazioni; ha scritto e corretto, riscritto e cancellato. Ha studiato e lo sa, che il vuoto non è come lo immaginiamo. È denso, vischioso come miele, un barattolo in cui all’improvviso compaiono dal nulla, e subito tornano da dove sono arrivate, particelle infinitesime che si creano, si cercano, si scontrano per poi tornare a essere niente.
«Buongiorno, la posso aiutare?».
«Mi servirebbe un libro. Grazie».
«Siamo in una biblioteca, signore. Credo di riuscire a fare qualcosa per lei», poi un sorriso. Il suo sorriso.
Le particelle che si creano dal nulla, si cercano e, insieme, nel nulla ritornano, si sorridono così come lei gli aveva sorriso il giorno del loro primo incontro?
Nascono nel vuoto per un solo, singolo, brevissimo istante all’unico scopo di ritrovarsi ancora una volta, unirsi e sparire, insieme, nell’eternità?
In fondo, così come noi, riflette nel buio. Prima e dopo di lei, era il vuoto. La mia materia, il mio opposto e il mio tutto. Lei. Senza di lei non sarei mai stato nulla. Niente: lo ero prima di incontrarla, lo sono da quando è andata via.
Sospira: nel buio, non vede che il suo alito ha creato un piccolo cerchio opaco sul vetro. «Dove sei? Dove sei andata? Stai bene, amore mio? Hai freddo, ti senti sola senza di me? Perché mi hai lasciato indietro, da solo? Piccola rondine, passerotto, vecchia ciabatta, luce del giorno, stella, tesoro, dolcezza. Tu, la mia gioia, la mia stampella, il mio muro portante, il mio ponte verso il giorno… quanti nomi ci siamo dati in tutti questi anni. Dove sei, mia alba e tramonto? Mi stai aspettando, vero?».
Le dita magre e un po’ curve si protendono avanti fino a sfiorare il vetro. È freddo. Fa freddo, è una notte d’inverno. A lei non piaceva l’inverno, i giorni lattiginosi di nebbia, la pioggia sottile. A lei piaceva la primavera. Se n’è andata in primavera, forse lo ha fatto apposta, ha aspettato una di quelle mattine perfette per compiere il suo ultimo passo, in quel letto sciatto di una stanza qualunque. Non aveva neanche un fiore, sul comodino. Le piacevano tanto i ranuncoli. Avrebbe dovuto pensarci e inondarle la stanza di vasi pieni di petali colorati.
Vieni a prendermi, mormora. A me non importa il momento, basta che tu arrivi e mi prenda per mano dicendomi: andiamo, è ora. Anche solo un istante, come le particelle nel vuoto dell’Universo, che appaiono dal nulla, si scontrano e non sono più. Mi basterebbe un ultimo istante con te, ancora uno e potrei affrontare l’inferno. Se mai esistesse, l’inferno. Che invece esiste ed è qui: ci sono caduto dentro nell’istante stesso in cui sei andata via.
Appoggia la fronte allo stipite ruvido di vernice sbrecciata. Decadere come un castello di sabbia che si sbriciola giorno per giorno, senza di lei. La sua assenza, quel vuoto, la mancanza: i suoi vestiti gettati sulla poltroncina in camera da letto; il profumo dell’arrosto, le chiacchiere stupide; le canzoni ballate in salotto ridendo, con le ginocchia che sbattevano contro le sedie; i bicchieri di vino e i panini, d’estate, seduti sui sassi lisci accanto a un torrente, circondati dagli alberi fitti di un bosco; le liti furiose e gli abbracci. Quella volta che lei lo aveva lasciato per giorni, minacciando di non ritornare mai più: le sue suppliche e le lacrime, le chiavi di casa e le notti avvinghiati.
«Mi manchi», ripete. «Non ho più uno scopo. Prendimi, portami via, dove sei tu: anche nel niente, purché sia con te».
Il buio si sta facendo più tenue, da qualche parte, là fuori, sta arrivando l’alba, l’ennesimo giorno da sprecare aspettando lei.
Sospira. Un’altra notte è andata.
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