CattiviConsigli . IRA
Il capitone parte 2
In 31 Dicembre 2018 da Gianluca PapadiaSe ti sei perso la prima parte la trovi qui
Trascorrere la settimana tra Natale e Capodanno in ospedale non è stato piacevole. Da solo, senza nessuno che ti viene a fare visita. È stata dura vedere tutti gli altri pazienti ricevere regali e un sacco di prelibatezze da mangiare mentre io consumavo i miei brodini sciapiti. Liberare il capitone dalla nostra vasca da bagno mi è costato: un trauma cranico, la frattura scomposta del capitello radiale e la lussazione della spalla. Per la frattura è stato necessario l’intervento chirurgico e ora mi ritrovo con due placche e quattro viti nel gomito. Essere operato il giorno di Natale è stato un’esperienza che non auguro a nessuno. Il primario è dovuto rientrare dalle ferie e la faccia che ha fatto quando gli ho raccontato la mia disavventura in bagno non la dimenticherò mai. Sono diventato lo zimbello del reparto di Ortopedia e Traumatologia dell’ospedale Pellegrini di Napoli e tutti mi chiamano ‘O Capitone. Ai miei avevo raccontato una bugia. Non potevo dirgli che ero scivolato in bagno per liberare il capitone la notte della vigilia di Natale. Avevo detto a mia mamma di essere caduto mentre facevo jogging di mattina presto e che alcuni amici mi avevano accompagnato al pronto soccorso. Quando mia mamma e mia nonna sono giunte al mio capezzale, ci sono voluti solo pochi minuti perché la verità venisse a galla.
«Buongiorno, signora» ha detto l’infermiere di turno a mia nonna, «quest’anno niente capitone, è vero? Pure io ho una nipote animalista che sta su una nave di Greenpeace a difendere le balene. Dovete essere fiera di lui». Mia nonna, che non aveva colto l’ironia del bastardo, si è alzata dalla sedia, si è fatta il segno della croce, ha abbassato il velo nero sulla faccia ed è uscita in silenzio dalla stanza.
«Ma tu fuss scem?» mi ha prontamente redarguito la mamma, «ci hai fatto cercare il capitone per tutto il palazzo. Per colpa tua siamo diventati lo zimbello del quartiere. Per colpa tua non abbiamo festeggiato la vigilia di Natale. La nonna ha rimesso il lutto e sta dicendo il rosario da una settimana» e ha seguito la nonna nel corridoio.
Da quel giorno nessuno è venuto più a trovarmi. Mia sorella mi ha scritto che la nonna ha vietato a tutta la famiglia di venire in ospedale.
Oggi è il 31 Dicembre e la caposala mi ha detto che appena passa il primario mi dimette. Sono già le sette di sera e il dottore non si vede ancora. L’infermiere, mancato comico di Zelig, mi ha appena rifatto la fasciatura al braccio. Devo tenerla ancora per quindici giorni poi farò una radiografia di controllo. Il personale medico e paramedico del reparto è in evidente stato di eccitazione. Sono tutti contenti di finire il loro turno di lavoro tra pochi minuti.
«Hai visto come so contenti?» mi chiede il vecchio che occupa il posto accanto al mio. Nonno Gennaro è un habitué di questo reparto. Ogni anno, prima di Natale, finge di cadere, per non passare il Natale da solo a casa. Ormai non gli fanno più nemmeno le radiografie.
«A Capodanno sono tutti felici» gli rispondo senza troppa convinzione.
«E mica è per quello. Qui stanotte ci sarà il finimondo. Nessuno vuole essere di turno il 31 Dicembre. Uagliò, ma tu non sei di Napoli? ‘O saje che a capodanno si sparano i botti?»
«Certo che lo so. Vicidomini, l’inquilino del terzo piano, ogni anno fa una colletta in tutto il palazzo e compra l’ira di Dio. E’ fissato con questa storia dei botti di capodanno e sul terrazzo di copertura monta l’impossibile. Lo sapete come va a finire, no? Si fa a gara nel quartiere a chi spara di più.»
«Questa cosa non l’ho mai capita. Spendere tutti quei soldi con la miseria che ci sta in giro? Sapessi quanti giovani come te, arrivano qua, senza un dito, senza una mano, con gli occhi rovinati.»
«Capitò. Il primario ti vuole. Dai che torni a casa» urla la caposala da fuori la porta.
Saluto affettuosamente Nonno Gennaro e raccolgo le mie cose.
«Mi raccomando, stasera vedi di fare il bravo. Fai pace con tua nonna e stai lontano dai botti. Non voglio vederti tornare qua dentro» mi dice il mio compagno di stanza prima che io sia uscito dalla stanza. Raggiungo di corsa la stanza del primario che trovo in piedi ad attendermi.
«Ci vediamo tra quindi giorni per un controllo» mi dice porgendomi il certificato di dimissione e la terapia che dovrò seguire.
«Auguri» dico al primario e lo ripeto a voce alta quando sono in corridoio.
«Auguri capitò» rispondono in coro quasi tutti.
Sono felice di uscire da quel posto e l’aria fredda che mi colpisce il volto mi fa dimenticare tutti i dolori. Arrivo in farmacia giusto un attimo prima che chiuda.
«Troppo impegnato a comprare i botti per arrivare un po’ prima?» mi chiede il dottore quando mi consegna una busta piena di farmaci. A Napoli siamo tutti comici ma non ho voglia di dare spiegazioni.
«Auguri» dico al simpatico neo laureato ed esco dalla farmacia con le ali ai piedi.
Quando giungo a casa, stranamente non c’è nessuno. È triste non vedere la tavola imbandita. L’unica cosa che mi ricorda capodanno è la pila di piatti Barilla poggiati sul mobiletto vicino alla finestra. L’usanza vuole che allo scoccare della mezzanotte, le persone buttino le cose vecchie giù dal balcone. Ormai cose vecchie in casa nostra non ce ne sono ma mia nonna ha trovato la soluzione: fa la raccolta punti del Mulino Bianco per avere degli oggetti di porcellana da buttare a capodanno.
«Questi piatti non sono buoni, si rompono subito. Io faccio la raccolta solo per buttarli giù» ripete la nonna ogni volta che proviamo a farle cambiare idea. «Del resto, tu fai i biscotti, le merendine, la pasta e la farina, è normale che non sappia fare i piatti, no?» Sorrido pensando alla violenta critica alla raccolta punti nascosta nelle parole di mia nonna, ma questo è un cattivo consiglio che proverò a raccontare qualche altra volta.
«Dove siete?» scrivo a mia sorella e proprio in quel momento lei, mia mamma e mia nonna entrano dalla porta.
«Ah, ti hanno fatto uscire? Come stai?» mi dice un’estranea che fino a una settimana prima credevo fosse la mia mamma.
«Nonna, scusa, non volevo. Il capitone mi faceva pena. Tu ci obblighi a tenerlo nella vasca per una settimana. L’altra notte, sono andato in bagno e ho visto che mi guardava strano. Quel povero animale aveva capito tutto. Ho preso il secchio e ho cercato di afferrarlo ma… Tu lo sai com’è difficile afferrare un capitone. O piglie pa cap e se ne fuje pa coda. Chiedo scusa a tutti. Sono stato un cretino: per poco non ci rimanevo secco in quel bagno.» Mia sorella scoppia a ridere e pure mia mamma non riesce a trattenere una risata, solo mia nonna resta impietrita. «All’ospedale stanno ancora ridendo di questa storia».
«Comunque noi abbiamo già mangiato. Nel forno c’è la tua cena» dice la nonna rompendo il nostro inopportuno attacco d’ilarità. «Noi quest’anno il capodanno non lo festeggiamo» sono le ultime parole dell’anno che dice prima di chiudersi nella sua stanza.
«Ti riscaldo la pasta?» mi chiede l’estranea che adesso riconosco essere la mia adorata mamma.
«No grazie, non ho fame» e mi chiudo in bagno.
«Uè, non ci stare tanto che tra poco devo uscire» urla mia sorella da fuori la porta.
Rivedere la scena del delitto mi fa tornare alla mente tutti i miei acciacchi. La testa ricomincia a pulsare e il dolore alla spalla si fa sempre più forte. Solo il gomito non mi fa tanto male. In lontananza si sentono i primi scoppi dei petardi. La città si prepara ai festeggiamenti, mentre m’immagino la faccia bramosa di Vicidomini che sta contando gli ultimi istanti prima della mezzanotte, vedo il secchio. E’ strano l’effetto che fa su di me quello stupido contenitore di plastica. Lo prendo e rivedo il capitone che nuota libero nel porto di Napoli. Lo riempio d’acqua ed esco dal bagno cercando di non farmi vedere da nessuno. Quando esco da casa mia, il portone è in un silenzio surreale. Salgo fino all’ultimo piano e accedo al terrazzo con le gambe tremanti. L’arsenale è pronto per la guerra. le parole di Nonno Gennaro mi rimbombano nella testa. Dopo un’oretta rientro nel palazzo, per scendere al piano terra non uso l’ascensore, ho paura di incontrare qualcuno. Quando passo fuori la porta di casa mia, sento la nonna che sta discutendo ad alta voce. «Solo i piatti. Gettiamo giù solo i piatti. Altrimenti perché l’ho fatta questa raccolta?» sta urlando.
Quando arrivo al piano terra, mi nascondo nel sottoscala del palazzo, ormai manca poco alla mezzanotte. La città freme ma un minuto prima che tutto abbia inizio sento Vicidomini che urla: «Currite, currite, se so’ bagnate tutte ‘e botte. Che tragedia». Esco dal portone col mio secchio vuoto, proprio allo scoccare della mezzanotte e una pioggia di piatti Barilla mi prende proprio in pieno.
Gianluca Papadia è autore di molti racconti vincitori di premi letterari. Ha pubblicato il libro:
- La rabbia eaudita. 32 consigli per combattere l’ira – raccolta di racconti, Amazon, 2018
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