
INVIDIA . Lector In Invidia
Il bagaglio, luogo della speranza
In 25 Ottobre 2018 da Attilia Patri DPGiovedì,10 ottobre 2018. Genova
Il giorno stabilito le persone (due per ogni appartamento) si dovranno recare presso i punti di Assistenza alla popolazione, (individuati nella cartografia). I residenti dei civici di Via Porro: 5, 6, 6A, 8 e 10 dovranno accedere da Via Capello; I residenti dei civici di Via Porro. 9, 11, 12, 14, 16 accederanno da Via Fillak lato di Certosa. L’orario e il giorno previsto per ogni accesso è dettagliato nel calendario degli accessi – dal Vademecum della Protezione Civile del Comune di Genova
Genova, Zona Rossa, sotto i monconi del fu Ponte Morandi. Metri e metri di nastri bianchi e rossi a delimitarne i confini, i sensori a segnalare anche le più impercettibili vibrazioni delle carreggiate monche e sospese, uomini della Protezione Civile e Vigili del Fuoco, piattaforme, liste di indirizzi e di cognomi che lì risiedevano, elenco di orari, turni, e mai più di una famiglia all’interno degli edifici come regola principale, psicologi a far da spalla cercando di alleviare sconforto e debolezze, la predisposizione di un piano di fuga qualora si ravvisassero situazioni di pericolo o qualche mutazione drastica delle condizioni meteo.
Comincia così, per le prime ventitré famiglie sfollate l’accesso per recuperare i beni all’interno degli appartamenti evacuati dopo gli eventi del 14 agosto. L’atmosfera è quasi spettrale: strada deserta, palazzi disabitati da oltre due mesi, alcune finestre rimaste aperte e un silenzio irreale se non fosse per il vociare degli sfollati, degli operatori, dei cronisti. Gli unici segni di una vita precedente sono le piante sui balconi rimaste vive, il tanfo di alimenti andati a male dentro ai freezer spenti, il tavolo con le cose sopra come lo si era lasciato uscendo di casa in fretta. Su tutto, uno spesso strato di polvere. Due ore di tempo, cinquanta scatoloni in varie misure per famiglia, pennarelli e nastro da imballaggio, due vigili del fuoco a dare una mano e un terzo all’esterno per completare il trasloco su montacarichi e giù un camion che porterà tutto il materiale al magazzino Bic in attesa del recupero definitivo. Si concede qualche flessibilità ma si chiede il rispetto delle regole e dei tempi per poter dare a tutti la possibilità di rientrare nelle proprie case.
E avviene così, tra cartoni, inciampi nella nostalgia, uno sguardo alle cose, un occhio alle variazioni climatiche e l’altro ai sensori, l’ultimo saluto a pareti, porte, gusci di intimità domestica, che dovranno essere definitivamente abbattuti. Si sgombera. Si va avanti, con un tempo a disposizione scandito e interrogativi per i quali le risposte non sembrano mai sufficientemente corrette. Decidere cosa prendere e cosa lasciare, il necessario o i ricordi di una vita. Riscegliere tra cose già scelte e che in casa avevano un loro posto, una loro rilevanza, un peso nella rappresentazione del sé e della propria storia vissuta.
Priorità in scatole di diversa misura chiuse con nastro e un nome. Ci si affida a elenchi affidabili e intrisi di razionalità compilati altrove e si finisce con l’obbedire al momento del qui e adesso in un braccio di ferro continuo, senza vincitori, tra buon senso e nostalgia.
Priorità dell’essenziale senza poter dare una definizione di essenziale, una disorganizzazione cognitiva dalla quale riprendersi in fretta, anche se l’emotività scompiglia continuamente le carte, gli elenchi si smagliano e il baratto, tra cuore e mente, è sempre in agguato in un momento emotivamente difficile di separazione ultima e definitiva. Un lutto da elaborare in centoventi minuti in una casa dove il tempo si è fermato e che certo rappresentava, forse, il peggio che Genova potesse offrire come soluzione abitativa eppure, per tanti, era pur sempre casa loro, il punto di riferimento di una vita e degli affetti, e che costringe, ora, a mettere in discussione tutto, dentro e fuori, che impone nuove scelte, futuro compreso.
Da fuori sembra solo un cantiere complesso tra tecnica e umanità mentre i primi furgoni partono carichi di oggetti e ricordi.
Mercoledì, 12 ottobre 1492: E il mare concederà a ogni uomo nuove speranze, come il sonno porta i sogni. – Cristoforo Colombo
E visto che siamo a Genova spostiamoci in centro, alla Scalinata delle Caravelle, a quel giorno quando si scoprirono nuovi mondi e, con questi, nuove opportunità da cogliere con la valigia in mano, soprattutto nella seconda metà dell’800 e la prima del ‘900. Storie dei singoli, ognuno con la propria motivazione socioeconomica, tra il sogno di alcuni di ampliare i commerci e quello più semplice, di sistemarsi bene, lavorando sodo ma con la prospettiva di un maggior benessere per sé e per i propri familiari, di altri. La Merica, la terra promessa, il sentito dire da chi c’era stato ed era tornato con la serenità di un bel gruzzolo per poter comprare casa nel paese natale. Il sogno americano made in Italy partiva da lì, a cavallo dei due secoli, su una banchina del porto in attesa di salire sul bastimento. Accompagnavano il sogno pochissime certezze: i documenti, il biglietto di imbarco in terza classe, una valigia di cartone legata con uno spago a custodire l’essenziale, un quasi niente, mescolato a foto, qualche santino, incertezza e nostalgia di chi è in fuga dalla miseria e dalla fame in viaggio verso l’ignoto. La valigia sempre tenuta stretta quasi fosse un tutt’uno, una propaggine del corpo stesso, unico legame con un mondo che si lasciava alle spalle ma al quale rimanere ancorati per radici, storia, cultura, affetti, mescolati frettolosamente, e senza indugiare a guardare troppo indietro, ai pochi cambi d’abbigliamento e a qualche risorsa per il sostentamento alimentare. Tanto più fragile e minuscolo era il bagaglio, tanto più grande era la speranza che qualsiasi cosa avessero trovato sarebbe stata comunque meglio del quasi niente che potevano avere nel loro paese. Speranza con lo sciabordio delle onde come culla.
Storie dei singoli che diventa Storia della Immigrazione Italiana ben rappresentata nell’Ellis Island Immigration Museum con quel suo apologo in italiano che recita: Dicevano che in America le strade sono pavimentate d’oro. Arrivato là mi sono accorto invece che non erano pavimentate per niente. E mi hanno detto che adesso pavimentarle toccava proprio a me. Speranza mescolata alla rappresentazione dell’America come di un irrealistico eden accogliente ma che, in realtà, così non è stato per tutti, sgretolando il sogno di un appuntamento con la fortuna che non offriva il giusto incastro.
Non erano tanto diverse, nel secolo scorso, le valigie di chi migrava via terra, in treno. La valigia della speranza in Germania scendeva, come prima tappa, al binario undici della stazione di Monaco di Baviera o in Belgio, nelle miniere, rispondendo all’accordo uomo-carbone con il quale Bruxelles si impegnava a fornire, alle nostre industrie, due tonnellate e mezzo di carbone per ogni connazionale mandato nelle miniere.
La speranza che aveva consumato suole muovendo uomini, e ormai un po’ annerita, era sorretta solo dalla certezza di un salario percepito in un giorno preciso del mese.
Sabato, 16 ottobre 1943. Roma
I tedeschi eseguivano il loro compito senza violenze superflue ma in fretta. Solo il calcio del fucile a pigiare sui carri i recalcitranti, a spingere chi, vecchio o confuso, tardava a muoversi. Entrando avevano consegnato ad ogni famiglia un biglietto dattiloscritto in due lingue, tedesco e italiano. Diceva che tutti, proprio tutti, dovevano raggruppare poche cose essenziali, dei viveri per otto giorni e lasciare la propria abitazione entro venti minuti, seguendo i militari tedeschi. La fretta era tale che pochi ebbero il tempo di pensare, di capire cosa stava succedendo. Bisognava ricordarsi di prendere tutte le cose assolutamente necessarie ad uno spostamento, le medicine per i vecchi e i malati, quanto serviva ai bambini piccoli. – Anna Foa, Portico d’Ottavia 13, Editori Laterza
Il Sabato Nero, il giorno del rastrellamento del ghetto e non solo. Una retata capillare di 1529 persone tra le cinque e trenta e le quattordici: se non fosse una storia dell’orrore sarebbe una storia di efficienza, visto il poco tempo impiegato. 1024 furono deportati direttamente ad Auschwitz con un convoglio di diciotto carri bestiame che lì li scaricò il 22 ottobre e se ne compì il destino. Solo sedici sopravvissero.
Auschwitz, oggi come allora, è un luogo buio, gelidamente oscuro anche in piena luce, e silenzioso, di quel silenzio urlato dalle pareti, dai soffitti, dagli oggetti che lì vi sono raccolti a testimonianza. Lunghi vetri a creare corridoi di penetrazione nell’indicibile. Stanza numero quattro del blocco cinque, il posto delle valigie, tutte diverse per dimensioni e materiali, accatastate in mucchi che sembrano infiniti così come sembrano infinite le storie delle persone che le hanno possedute e portate con sé nell’inganno del campo di concentramento fatto passare come un semplice campo di lavoro per prigionieri dal quale tornare a conflitto bellico ultimato. Nessuna informazione sulla destinazione e una valigia che, nell’incertezza, conteneva un po’ di tutto, un insieme variegato di oggetti comuni, di cose di tutti i giorni, le stesse che avrebbero rimesso dentro nel viaggio di ritorno.
Ma quale ritorno se già il viaggio di andata, in quelle condizioni di igiene e di sopravvivenza disperate, era predisposto perché a destinazione arrivasse il minor numero di persone possibile? Quale casa avrebbero più potuto rivedere se, appena tirati giù dal treno, con una selezione approssimativa, venivano spinti dentro stanzoni, fatti spogliare con la scusa di sottoporli ad una doccia, mentre qualcuno già predisponeva la fuoriuscita di gas letale? Quale perversione chiedeva loro che, prima di entrare nelle docce, scrivessero sulle valigie il nome, il cognome, la provenienza, in modo da poter recuperare più facilmente i propri effetti personali al termine delle abluzioni? Quale malvagità si beffava di chi aveva già capito che da quello stanzone non sarebbero usciti con le proprie gambe? Eppure, forse ancora con un filo di speranza tirato allo spasmo, forse per paura delle conseguenze di un rifiuto, scrivevano. Era il loro modo, qualunque cosa ci fosse stata oltre quella porta, per lasciare un segno di sé, una prova della loro esistenza scaraventata lì. E mentre il Zyklon B spegneva alveoli, speranza, futuro, fuori le guardie tedesche svuotavano le valigie con fare ordinato, separando e raccogliendo meticolosamente ogni oggetto per tipologia di merce affinché nulla andasse perduto, men che meno il denaro e gli oggetti di valore, impilando le valigie, ormai vuote, in un magazzino.
In quelle valigie che spogliavano del loro contenuto non trovarono la speranza. La speranza era nel cuore di esseri ridotti a niente e aveva i connotati di una fuga miracolosa quanto improbabile, di una clemenza all’ultimo istante senza vederne tuttavia mai una traccia, di un barlume di residua umanità nella cecità più offuscante e assoluta.
Non occorrono date per chi fugge da una guerra o da una dittatura, così come non serve un grande bagaglio o una valigia. Non è necessario per chi è sempre all’erta, pronto a cogliere il momento opportuno e anche il fagotto deve essere pronto, senza impicciare, di facile gestione. Basta uno zainetto, o una busta di plastica, con i soldi avvolti per bene perché non si bagnino, i documenti, un telefono, un ricambio, qualcosa da mangiare, una bottiglia d’acqua, una chiavetta di memoria con le foto di famiglia, spazzolino e dentifricio, qualche medicinale, dei limoni se si soffre il mal di mare. Quando va bene anche un giubbotto di salvataggio, magari di seconda mano. Non si è neanche certi che il bagaglio non sia un bagaglio a perdere e senza uffici per i reclami. Non si sa se verrà divorato dal mare o se il mare divorerà anche loro, sputando resti su qualche spiaggia. La speranza è addosso, tutta nelle tasche.
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