CattiviConsigli . IRA
Take Hawaii
In 25 Novembre 2022 da Gianluca PapadiaNapoli è la capitale mondiale dello street food.
Ad ogni angolo di strada trovi qualcosa di succulento da mangiare.
L’odore di una pizza fritta lo senti da lontano. Ti prende per mano e ti accompagna fino alla friggitoria. Lo stesso discorso vale per la classica frittatina, la sfogliatella, il rhum che bagna i babà.
Se il palato sarà il giudice supremo per stabilire la bontà del piatto, la vista e, soprattutto l’olfatto, dovranno dare il loro prezioso contributo.
Per questo motivo non capisco il successo che hanno avuto le catene di fast food. La cura maniacale per l’aspetto invitante dei loro piatti stride con la puzza – perché di quello si tratta – che emanano queste cattedrali del “mordi e fuggi”.
Il tanfo che aleggia nei pressi di questi posti però non persuade gli avventori.
Il potere occulto della pubblicità li spinge a soprassedere pure sul gusto alquanto “innaturale” di questi piatti veloci.
Preferire un hamburger dal sapore di plastica a una pizza margherita – servita a portafoglio – che costa un terzo e sazia il doppio, è uno dei misteri più inspiegabili della mente umana.
Almeno questo pensavo fino a quando in città non è arrivato il famosissimo pollo fritto del Kentucky.
La puzza, in questo caso, è davvero insopportabile e l’olezzo nauseabondo che si percepisce a chilometri di distanza, collima perfettamente con il gusto delle pietanze.
È per questo motivo che ho rivalutato la svolta nipponica dei miei figli.
Il sushi rappresenta un’ottima alternativa al take away d’oltreoceano.
L’idea che i miei ragazzi divorino pesce crudo di indubbia provenienza ma disprezzino il nostro amato pesce azzurro mi dà un po’ fastidio ma, da quando i ristoranti giapponesi hanno invaso anche le strade napoletane, uscire a pranzo con loro, mi fa meno paura.
Oggi, infatti, passeggiando per il centro sono più sereno.
«Jappo?» chiedo a mia figlia cercando di imitare il suo slang.
«Sei proprio uno boomer» risponde prontamente lei.
«Cosa vuoi mangiare?» reclamo, avendo timore della sua risposta.
«C’è una pokeria qui vicino».
Non ho capito la sua risposta ma ho il terrore di chiederle spiegazioni e la seguo senza fiatare.
Annuso l’aria come un cane da tartufo alla ricerca di tracce olfattive allarmanti.
Da fuori, la pokeria somiglia a una gelateria molto colorata e l’assenza di odori forti mi rasserena.
«Che si mangia lì dentro?» domando leggermente preoccupato.
«È cucina hawaiana. Non mi dire che non hai mai assaggiato il pokè?»
Nel ristorante hawaiano c’è una vetrina dove al posto dei gelati c’è un po’ di tutto: carne, pesce, verdura, frutta fresca, frutta secca e perfino fiori.
Nessuno di quegli alimenti però, mi stuzzica l’appetito.
Il menu è esposto sotto lo slogan “Anima napoletana e gusto hawaiano”. L’elenco delle pietanze è talmente raccapricciante che preferirei ingurgitare un quintale di nori, l’odiosa e incommestibile alga giapponese.
«Cosa prendi?» mi chiede mia figlia quando arriva il nostro turno.
«Sono un po’ indeciso» mento.
«Non hai sempre detto che il cibo va assaggiato prima di dare un giudizio?» risponde lei che evidentemente non ha creduto al mio bluff. «Dai papà, è facile. Devi scegliere il tipo di riso, un po’ di proteine, il green, il topping e la salsa».
«Facilissimo» pronuncio sforzandomi di ridere.
«Allora per me: riso venere, salmone, avocado, granella di pistacchio e salsa ponzu» elenca beatamente mia figlia.
«Lo stesso anche per me, grazie» ordino tutto d’un fiato.
Le due insalate ci vengono servite in contenitori di cartone simili a quelli dei popcorn.
Ci sediamo all’aperto a gustare il nostro cibo multietnico mentre di fronte a noi una coppia di ragazzini sta mangiando un panino con salsiccia e friarielli comprato al furgone parcheggiato sul bordo della strada.
Quando ormai è troppo tardi capisco che l’olio dovevo chiederlo al posto della maionese e che il pane qui non sanno nemmeno cos’è.
Mi alzo e mi avvicino al furgone sotto lo sguardo schifato di mia figlia.
Chiedo al venditore ambulante di aggiungere alla mia insalata un po’ di olio e un po’ di sale.
Lui esegue senza batter ciglio e, dopo aver mescolato per bene gli ingredienti, appoggia due fette di pane tostato sulla mia insalata.
Ringrazio quel santo uomo e torno da mia figlia che continua a mangiare il pokè senza togliere lo sguardo dalla sua bowl.
«È da tanto che non andiamo a mangiare pollo fritto» pronuncio per rompere il silenzio. «Ne hanno aperto uno proprio qui in centro. Magari la prossima volta, andiamo dal nostro amato colonello, che ne dici?»
Mia figlia non mi degna nemmeno di uno sguardo e continua a mangiare il suo pokè con aria soddisfatta.
«Mi spieghi perché quando preparo l’insalata di riso fai tante storie?» le chiedo cattivo.
«Questa non è un’insalata di riso, papà. È un pokè, qualcosa di molto più esotico» risponde acida.
«E sai qual è la differenza tra un’insalata di riso e un pokè?»
«No, sentiamo».
«Che nel pokè gli ingredienti non vengono mischiati. Perché se lo fossero, cara mia, si chiamerebbe insalata di riso hawaiana».
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