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Babylon Berlin: Zu Asche, zu Staub
In 15 Giugno 2020 da Fabio MuzzioTra i periodi cruciali del Novecento per dinamiche e conseguenze vi è la Repubblica di Weimar: debole ma orgogliosa, un sistema politico di una nazione dalle mille contraddizioni incarnate da Berlino che questa serie TV ci racconta nella sua bellezza e nella sua perversione, dove alla povertà dei cortili si contrappone al lusso delle case che si affacciano sui grandi viali.
Berlino la capitale così moderna, che respira l’ultima fiammata di una Belle Époque fuori tempo e magicamente riprodotta al Moka Efti, il night dove allo spettacolo della sala principale, che ha i passi del charleston, delle mille sigarette, delle coppe di champagne, della ragazze pronte alle richieste, delle ballerine vestite come Josephine Baker e del travestimento, si contrappone il vissuto del piano sottostante con prestazioni sessuali per tutti i gusti concordate attraverso il colore della carta della zolletta di zucchero.
Berlino contaminata dal futurismo, dalla voglia di superiorità dell’uomo e dal progresso, nella quale le conseguenze della Prima guerra mondiale hanno lasciato il segno e più che di cicatrici si deve parlare di ferite sempre aperte.
Berlino contraddistinta dalla speculazione finanziaria della bolla che esploderà a Wall Street trascinandosi poi il mondo, nella quale c’è la modernità della psicologia, degli studi sulla mente, dell’elettrochoc, dell’uomo macchina, dell’avvento del metodo scientifico nell’indagine della polizia e del cinema che si sta facendo da sonoro a parlato emblema di un altro passaggio epocale di un mondo in fermento e trasformazione.
Berlino simile alla Chicago degli anni Venti e controllata dalla malavita, che si è spartita i business e dove la polizia politica si accanisce sul pericolo comunista mentre l’U.R.S.S. di Stalin complotta con i vertici dell’esercito per riarmare in segreto e contro gli accordi di Versailles una potenza con cui allacciare alleanze nell’equilibrio dello scacchiere di una Vecchia Europa agli ultimi veri sussulti di continente al centro del mondo.
In questa Berlino gaudente e perversa, complottista e degradata, tossicodipendente e satanista si muovono i personaggi tra chi sfrutta e chi è sfruttato, chi vuole emergere dall’abisso e chi nell’abisso ci finisce: nessuno è esente da errori, da peccati, da rimorsi o da segreti. Nessuno è perfetto, tutti hanno punti deboli, tutti combattono i propri fantasmi.
Babylon Berlin, tratta dai romanzi di Volker Kutscher, porta dentro tutto questo e conduce, nelle prime tre stagioni (in attesa della quarta annunciata e poi sospesa per il fermo di ogni produzione), con ventotto episodi sorretti da una narrazione intrecciata e solida che racconta quel lento scivolamento verso il baratro che l’Europa talvolta permissiva e vendicativa ha di fatto agevolato con la nascita della Germania nazista in una fase storica comunque contraddistinta dall’ondata totalitaria. Tra personaggi reali, verosimili e frutto della sceneggiatura si muove una capitale dove si scontrano comunismo e borghesia liberale, con quest’ultima che pensa di usare i nascenti nazisti come manodopera a basso costo; ma i nazisti più ricchi e colti si sono già infiltrati o convertiti nella parte più istituzionale della nazione e con ferocia eliminano uno dopo l’altro gli ostacoli; e in un disegno strategico predispone i programmi per coinvolgere e istruire la parte più giovane a quei nuovi principi che verranno imposti ogni volta che si alzerà la sbarra di un confine di stato da occupare.
A colpire in tanto rumore l’elemento più silenzioso è proprio il nazismo, che subdolamente si inocula nella società in una strada senza ritorno: l’antisemitismo latente, la paura seminata sapientemente, il nemico politico su cui scaricare le colpe, la frustrazione delle alte cariche militari, la fame e la mancanza di prospettive. I meccanismi per condizionare l’opinione pubblica e ottenere il consenso di Weimar non erano nuovi in quella fine degli anni Trenta e risultano ancora attuali: l’orgoglio nazionale, un colpevole di turno portatore di ogni problema, la paura seminata con cui condizionare le fasce più esposte, la povertà; e così alla fine chi passa all’incasso del consenso ottenuto nel modo più cinico e becero ottiene il “premio”: il potere.
Dei tanti personaggi che danno vita a questo ritratto storico, seducente e capace di entrare sotto pelle come la travolgente canzone Zu Asche, zu Staub, accenno solo i due principali: Gereon Rath (Volker Bruch) il commissario reduce di guerra che arriva da Colonia e rappresenta l’occhio esterno di colui che scopre la capitale e Charlotte “Lotte” Ritter (Liv Lisa Fries) l’occhio interno di chi conosce i luoghi e le regole, la ragazza berlinese sensibile e determinata, prostituta per necessità ma altruista con l’obiettivo di cambiare la propria vita in un mondo ostile e maschilista nel quale con qualche marco puoi soddisfare ogni desiderio. In fondo se Gereon rappresenta la difesa del potere, l’impegno, la lealtà in una situazione di grande mutamento, Lotte è la democrazia, bella e fragile che scende a compromessi ma non vuole arrendersi per diventare migliore.
Lo so che vi ho raccontato gli elementi fondamentali e molto poco della storia: proprio per questo vi consiglio di vederla.
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