
IRA . Lettere dall'Ira
Chiudi le imposte, tira le tende…
In 30 Marzo 2018 da Chiara MenardoCiao.
Mi dici che sono depressa.
Può essere. Ma tu, lo sai cosa vuol dire oppure lo sogni, lo immagini, lo pensi e basta? Lo pensi, lo sogni, lo immagini, ma non lo vivi, ecco il problema.
È come quando vorresti avvolgerti intorno alle spalle un mantello di foschia. Per non farti vedere, per non guardare quello che c’è fuori.
È come quando vorresti avere dei tappi di cera da ficcarti nelle orecchie per non sentire nient’altro che il silenzio fastidioso, come un ventilatore che ronza in una stanza lontana, che risuona monotono in testa.
È come quando vorresti urlare in mezzo a un bosco, lasciando che le grida si infrangano tra i rovi e sui rami facendo tacere tutto quello che sta intorno: niente più versi di corvi, schiocchi di scoiattoli, fili d’erba che si chinano a terra sotto il peso di una ghianda che cade. Niente di niente, solo il tuo grido e il silenzio: assoluto, sorpreso, impaurito.
È come quando ti siedi sul letto e appoggi gli occhi alle ginocchia e poi premi, premi forte la testa finché non vedi le macchie rosse e gialle che ballano sulle palpebre chiuse, caleidoscopi che girano al buio. E non vorresti fare nient’altro.
Perché, tanto, cos’altro ci sarebbe, da fare?
A che serve, a chi serve, perché dovrebbe servire a qualcosa alzare lo sguardo verso il cielo e guardare le nuvole che si rincorrono e si ammassano, come covoni di grano grigio, come le onde di un mare di smog?
Pesa e costa. Ogni movimento, ogni pensiero, ogni occhio aperto con fatica la mattina quando striscio fuori dal nulla del sonno. Costa e pesa.
Smettila di entrare in camera e aprire le finestre, tirare le tende e spalancare le imposte. Tanto sono avvolta in una garza spessa di foschia, non vedo niente.
Piantala di dirmi che devo reagire, uscire, vivere, gioire. Tanto ho il cervello impacchettato in uno stato di cera pastosa, non sento niente.
Cosa c’è da sentire? Cosa c’è da vedere? Cosa c’è da gioire? Cosa c’è da… “sperimentare”, dimmi?
Stai lì, in piedi al fondo del letto dopo che hai spalancato le finestre, aperto le imposte, scostato le tende, e mi guardi dall’alto, con le mani sui fianchi e le gambe un po’ aperte, in bocca ti rotolano parole come “Sperimentare, reagire, depressione, inerzia…” che la mia mente registra e lascia andare giù nello scarico, dove va a finire tutto. Nel buio.
Avvolta in un sudario di foschia appiccicosa come la gomma da masticare buttata per terra. Ieri, domani, è tutto lo stesso, un muro senza spiragli e io ci ho provato a scalarlo e passare dall’altra parte, dove dovrebbero esserci luce, esperienze, quella gioia di cui parli ogni tanto ma che non mi ricordo più. Non me la ricordo, quindi non c’è.
Chiudi le imposte e tira le tende prima di uscire. Lasciami stare sul letto a guardare fisso il niente solido e scuro. Non mi parlare, evita se puoi. Non ho voglia di ascoltare, di sforzarmi, non ho voglia, non ho forza. Non riesco, per quanto ci provi.
Una serpe fredda di filo di ferro che mi ha afferrata piano per le caviglie, senza che me ne accorgessi. Alice che cade nella tana del Bianconiglio, senza mai atterrare, senza arrivare da nessuna parte, sempre più giù, sempre più al buio, galleggiando in un liquido freddo e oleoso che toglie il respiro e i sensi che azzera il passato, il presente e, soprattutto, domani. Non c’è domani e, anche se ci fosse, in fondo, che importa? Uguale a oggi, a ieri, pastoso e vischioso come una gomma da masticare buttata per terra.
Quindi lasciami qui, avvolta nel piumone con gli occhi chiusi premuti sulle ginocchia e le mani che stringono le caviglie, lasciami qui a contemplare i caleidoscopi lenti di buio dietro le palpebre.
Tanto, comunque sia, è uguale.
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