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Il cenone della vigilia

In 24 Dicembre 2021 da Gianluca Papadia

A Napoli la vigilia di Natale è considerata la regina delle feste e nonostante il Covid e, soprattutto, i decreti del governatore De Luca (quest’anno si è inventato pure che è vietato consumare cibo per strada), la festeggeremo alla grande.

La giornata è lunghissima (parte a mezzanotte con la spesa al mercato del pesce) e inizia sempre con la più infame delle bugie: «A pranzo, quest’anno, facciamo il digiuno».

A pronunciare la frase blasfema è sempre la donna più anziana della casa che, all’ora di pranzo, ha il coraggio di mettere a tavola: la pizza ripiena di scarola, alici, uva passa, pinoli e olive nere; una pizza al pomodoro per i bambini (che pure se ormai hanno trent’anni per lei saranno sempre dei bambini); una pizza bianca per i bambini allergici al pomodoro (che ormai da vent’anni non soffrono più di quelle strane intolleranze infantili); le pizzette fritte di alghe (impasto di pizza avanzato che sembrava brutto buttare, ripieno di alghe di mare che il pescivendolo di fiducia le regala ogni anno, dopo che lei ha speso tutta la tredicesima al suo banco del mercato); un assaggio di baccalà fritto (giusto per sondarne la salinità, visto che del pescivendolo di cui prima, è meglio non fidarsi); la classica fellata (un tagliere pieno di tutti i salumi conosciuti dal genere umano, rigorosamente affettati, e quindi pronti a essere deglutiti velocemente, che qualsiasi invitato a quella tavola negherà di aver mai toccato per il rispetto della tradizione cristiana secondo la quale il 24 non si mangia carne); fette del tipico casatiello (avanzato a Pasqua e conservato nel famoso pozzetto a temperatura controllata che, nelle case napoletane, non manca mai); le famose ciociole (quintali di frutta secca che, durante queste feste, sembrano sgorgare dal pavimento e che, per non intasare ulteriormente i già compromessi intestini, vengono rigorosamente consumati, lontano dai pasti, a ciclo continuo, dal 8 dicembre al 6 gennaio); fiumi di vino di tutti i tipi (dal rosso paesano allo spumantino frizzante); frutta di stagione (perché quando stai digiuno, almeno una fetta di ananas ti serve per  sciacquare la bocca).

Non è raro vedere comparire su queste tavole imbandite anche i dolci tipici della tradizione napoletana (roccocò, mustacciuoli, struffoli e raffiuoli) che alla stregua della frutta secca vengono sgranocchiati dall’alba a notte fonda solo per tenere allenata la mandibola in vista dei grandi tour de force culinari previsti dal calendario cristiano.

Il 24 dicembre, la padrona di casa usa il buffet di mezzogiorno come test per la cena più importante dell’anno. Così,  seguendo la tradizione napoletana, i parenti che non saranno ospiti di quella casa, sceglieranno proprio l’ora di pranzo per passare a fare gli auguri. È un libero scambio: io ti porto una stella di Natale e tu in cambio mi offri una degustazione di quello che hai preparato per il cenone della vigilia.

Succede così che chi ha il privilegio di far parte di una famiglia numerosa verso le 17 ha già lo stomaco sazio di tutti i piatti della tradizione napoletana e cosa, più grave, ha ingerito una quantità di alcol da far impallidire un operaio irlandese durante l’happy hour.

È con questo spirito (l’alcol ingerito per l’appunto) che il napoletano si appresta ad affrontare la cena più lunga dell’anno.

Alle ore 18  in punto, chi c’è c’è, ci si siede a tavola.

Il tanfo di fritto ti  accoglie  già chilometri prima della tua destinazione, facendo aumentare il tuo senso di colpa per aver, anche quest’anno, divorato metà cassata napoletana per completare il tuo pasto frugale della vigilia.

La padrona di casa accoglie tutti con la seconda bugia della giornata: «Uè, ma mica a pranzo avete mangiato?».

E tu, pur di sottostare a questo gioco crudele, mentre un’esalazione di Fiano di Avellino porta a galla il sapore intenso del baccalà, hai il coraggio di esclamare: «Solo una fetta di pizza con la scarola».

Questa pantomima è il punto di non ritorno. L’inizio del tuo contributo allo spopolamento dei mari perché le oltre venti portate saranno rigorosamente a base di pesce.

La batteria di antipasti è roba da Guinnes dei primati, una sfida all’ultimo sangue a chi rimarrà vivo. Quello che spinge a consumare quell’enorme quantità di cibo non è fame ma vera e propria sindrome da buffet. Il cervello registra una serie infinita di immagini e profumi che cortocircuitano il meccanismo che regola la sazietà e tu potresti mangiare fino a farti scoppiare l’intestino.

L’apice della falsità umana si raggiunge quando a tavola è il turno dei primi.

La padrona di casa, sempre lei, con una cattiveria che rasenta il sadismo, dopo aver sgombrato la tavola di un corredo di piatti utili a sfamare una caserma, annuncia: «Come primo ho fatto solo un assaggio di spaghetti con le vongole e una manciata di risotto alla pescatora», per poi piazzare la coltellata decisiva, aggiungendo gioconda: «sennò il secondo non ve lo mangiate» che non lascia scampo agli ottimisti che credevano di aver superato indenni almeno la metà del menu.

È inutile dire che le porzioni di primo non hanno nulla a che vedere con la parola “assaggio” che la cuoca aveva paventato nel suo discorso introduttivo e, anche in questo caso, devi innaffiare tutto con litri di Falanghina ghiacciata che aiutano la sempre più difficile operazione di mandar giù i bocconi.

La sfilata di secondi non ti crea tanti problemi: la padrona di casa ha smesso di servire le pietanze nei piatti e adesso gira con i ruoti stracolmi di cibo che ti infila direttamente nel cannarone (la gola per i napoletani).

Per fortuna esistono anche pietanze che vengono solo cucinate e mai consumate come l’insalata di rinforzo, i broccoli di Natale o il capitone fritto che la padrona di casa tiene in bella mostra come fosse un avvertimento per tutti gli ospiti: mangia tutto quello che arriva a tavola, altrimenti faccio entrare le riserve.

La frutta viene consumata a morsi, senza nemmeno sbucciarla, perché dopo quattro ore ininterrotte di masticazione, non hai più la forza di usare le posate.

In piena digestione arriva l’ora della frutta secca e parte la consueta lotta all’oggetto più ambito della serata. Non si è mai capito perché in un tavola apparecchiata per trenta persone sia previsto uno, o al massimo due, schiaccianoci. Pure se ormai hai perso l’uso delle gambe, intorpidite dalla prolungata assenza di attività, sei costretto ad alzarti e a lottare per la conquista di quell’aggeggio infernale. Ho visto famiglie inventarsi i modi più disparati per aprire le noci soprattutto quando a tavola capita la zia zitella, che vuole aprire tutta la frutta prima di mangiarla in santa pace.

Quando arriva il turno dei dolci, il tuo fegato cerca di mandarti dei segnali chiari sotto forma di violente allucinazioni: vedi il volto della madonna dipinto sulle cassatine, gli struffoli trasformarsi nella corona di spine di Gesù, l’immancabile pastiera (risorta anche lei dal pozzetto congelatore) animarsi e  girare vorticosamente come una girandola ipnotica.

Dopo aver sgombrato la tavola per l’ultima volta, la padrona di casa gioca la carta finale: gli ammazza-caffè di sua produzione che ti vengono inoculati direttamente endovena tramite apposti aghi a farfalla da lei sapientemente modificati.

L’effetto alcol puro, distillato in casa, è il colpo di grazia per il tuo organismo che a quel punto ha smesso di essere in grado di intendere e volere.

Quando tua moglie ha l’ardire di ricordarti che tra poco dovrete scendere per recarvi alla consueta messa di mezzanotte, inizi a recitare a memoria i vangeli apocrifi per negare l’esistenza di Dio.

A quel punto entra in gioco tua figlia di cinque anni: ti implora di accompagnarla lo stesso in chiesa perché, se non ci va, questa notte babbo natale non arriverà.

E lì, in quel gesto apparentemente innocente, che è racchiusa tutta la magica forza del Natale.

Perché invece di alzarti, stringendo ancora in mano lo schiaccianoci insanguinato, e gridarle ad alta voce: «Nennè, ma quando cresci? Quel ciccione vestito di rosso non è mai esistito», tu, come tutti gli anni, reprimi un rigurgito di polpo all’insalata e affermi stoico: «certo, amore mio, che vi accompagno, papà si prende un attimo il caffè e poi scendiamo».

Perché la cena più lunga dell’anno non può finire senza un buon caffè napoletano.


Stiamo progettando una rivista letteraria per aiutare le nuove voci a emergere. Abbiamo sempre la stessa vision: diffondere cultura e talento.

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Tags: capitone, cenone, famiglia, Gianluca Papadia, napoli, natale, tradizione, vigilia di natale

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