
Le opinioni superbe . SUPERBIA
I cinque sensi, perché…
In 31 Dicembre 2022 da Redazione Seven BlogÈ un costante lavoro su noi stessi. Cinque sensi per catturare il mondo, l’immensità degli stimoli intorno a noi. Dicembre dovrebbe essere il mese dell’ascolto, del riposo del corpo. Non sempre ne approfittiamo, anzi, spesso ci facciamo prendere dall’ansia delle festività e lasciamo ai nostri sensi poco spazio per parlarci. Facciamolo ora, con i raccontini superbi della redazione…
da Debora
Costruzione dei sensi
La pioggia si posa sui vetri formando gocce irregolari. Non mi era mai sembrato prima d’ora di cogliere forme strane, allungate direi, nelle gocce di pioggia. Probabilmente il fatto è dovuto al prodotto antialoni con cui è stato trattato il vetro. Sono abbastanza maniacale sulla pulizia, soprattutto quando riguarda la mia auto.
La pioggia oggi pomeriggio è un tintinnio delicato, una sorta di accompagnamento musicale alla mia attesa. Non ti sembra, Commissario?
Sono molte ore che osservo lo stesso luogo. Aspetto. Mai uno sbuffo, mai una lamentela, nemmeno accennata, nemmeno pensata. Sto fremendo anzi, sono in ansia, come in una specie di limbo: nessun movimento mi è concesso fino al grande responso. Paradiso o inferno? Quale portone si spalancherà finalmente ai miei occhi?
Io sono qui per lavoro. Faccio… Un attimo, un attimo. Non so ancora il mio lavoro. Io sono un bruco, un abbozzo di futuro all’orizzonte e nulla più. C’è ancora molta strada prima di ricevere due ali colorate. Sono un personaggio in cerca d’autore. Ecco, ci siamo. Qualcuno sta decidendo il mio destino, così, guardandomi sommariamente. Eccitante? Oh, no, direi sconvolgente, pretenzioso, morboso e delirante persino.
Io sono una donna, anche se tutto sommato non mi sarebbe dispiaciuto se tu mi avessi creata uomo, Commissario. Oggi pomeriggio, la mia scarna figura femminile coperta senza troppa passione da un tubino nero è seduta al lato guida di un’utilitaria grigia, in attesa di qualcosa o di qualcuno, mentre la pioggia imperterrita bagna Napoli.
Lui esce che è già sera. Le luci dei lampioni lasciano da almeno un’ora riflessi ottagonali sul parabrezza colmo di gocce di pioggia. Sembrano tante lucine spezzate, come se qualcuno le avesse tagliate in tocchetti irregolari, pronto ad analizzarli uno a uno con calma e devozione. Sono immersa in questo pensiero, intenta a cercare un motivo plausibile per quell’analisi, quando vedo la sua figura dal passo deciso e vigoroso. Le gocce di pioggia non permettono una visuale nitida, ma io non posso in alcun modo girare la chiave, accendere il motore e mettere in funzione il tergicristalli. Non posso. Perché? Perché una cosa tanto ovvia mi è vietata?
Io però dovrei essere in grado di rispondere alla mia domanda. L’autore del mio io sa che non ho alcun bisogno di pormela. Tu lo sai, Commissario, vero?
E così non accendo il quadro e non muovo un dito, continuo a seguire con lo sguardo l’uomo uscito dal palazzo, che diventa pian piano macchie colorate confuse.
Quando lui mi è abbastanza distante, metto in moto e prendo la sua stessa via. So già che in quella via è parcheggiata una berlina rossa, sporca, che fa un leggero rumore di ferraglia; si può considerare ormai un’auto d’epoca perché la targa è datata venticinque anni prima. L’auto è inconfondibile; non solo per il colore sganciante o per il rumore di ferraglia che trascina con sé, ma perché sul parabrezza posteriore c’è attaccata la scritta bebè a bordo. Eppure, su quell’auto non è mai salito alcun bebè, non c’è nemmeno un seggiolino, niente.
Adesso so cosa farà l’uomo, partirà verso un luogo che io conosco bene. E io? Ora ricordo, devo seguirlo senza essere vista, senza essere sentita, senza essere minimamente avvertita.
Conosco l’uomo, so tutto di lui. Lui è una storia scritta a caratteri decisi sul libro della mia vita. Lui esiste nel profondo, rappresenta problemi e complicazioni, qualcosa che va oltre l’amore, il sesso, il desiderio. Anzi, forse non rappresenta nulla di tutto questo. Percepisco ora una sensazione di bisogno di lui, ma un bisogno freddo, distaccato. Eppure, man mano che cerco di ricordare, mentre i pensieri di lui e dell’attesa di lui escono dalla mia penna, io ho la certezza assoluta che il suo nome e il volto, le sue abitudini e la sua intimità, sono un’appendice di me stessa.
Lui è un uomo imponente. Ha spalle larghe e vita stretta, gambe dai muscoli visibili e dritte come quelle di un cavallo. Ha una conformazione tipica di uno sportivo. Ma lui non è uno sportivo, a meno che non si vogliano considerare sportivi gli uomini che fanno jogging dalle sei alle sette del mattino e piegamenti e crunch nel parco adiacente la propria abitazione. Ha la pelle molto nera, le sopracciglia sembrano disegnate, e magari lo sono anche, e come ogni uomo nero ha la bocca carnosa. Invece, il naso sembra addirittura perdersi nel suo viso perché è corto e stretto: in questo sembra un europeo. Gli occhi sono senza dubbio ciò che caratterizza inconfondibilmente il suo viso. Sono leggermente allungati ma grandi. Il forte contrasto tra l’iride scurissimo e il bianco dell’occhio intorno rende la profondità dello sguardo addirittura drammatica, tanto che il nero rispecchia sulla pelle e la fa sembrare truccata con eye-liner.
Vive a Napoli ma è di origini senegalesi. Conosce bene l’italiano ma si nota immediatamente la sua inflessione francese, per esempio nella erre e in quella parlata robotica e lenta. Ad ogni modo, non ricordo di averlo mai sentito parlare. Ricordo la sua voce, ma mi sfugge in quale occasione io l’abbia ascoltata.
Ma per ora solo i fatti.
L’uomo non delude le mie aspettative. Parte con la berlina rossa e, in fondo alla via, svolta a sinistra in direzione nord. Uscirà dalla metropoli, lo fa sempre. Guiderà per almeno quaranta chilometri, arrivando in un paesino che nemmeno i navigatori satellitari riconoscono. Un paese di campagna, con un mucchio di fienili al posto delle case, e proprio in un fienile si fermerà.
Io lascerò la mia utilitaria in uno spiazzo distante non più di mezzo chilometro dal luogo, e proseguirò a piedi come se fosse una consuetudine. Ma prima di incamminarmi, aprirò il bagagliaio e recupererò uno zaino in tessuto nero parecchio pesante, con la mia fotocamera. Mi avvicinerò lentamente al fienile. Il buio mi nasconderà bene, ma non mi darà modo di creare nessun alibi nel caso io venga scoperta da qualcuno.
Odierò ancora una volta quelle uscite dalla città, e di notte poi. Sono talmente frequenti che non posso fare a meno di vivere nell’ansia. Mi hanno raccontato che spesso, di notte, qui le strade sono sbarrate. Dei ragazzini ti fanno scendere e ti portano via tutto, compresa l’auto. Ma la cosa che fa più paura è dover poi camminare al buio per quelle strade dimenticate da dio. Per fortuna a me non è mai capitato. Ma ogni volta che passo davanti a questi cartelli che sembrano dei colabrodo perché sono pieni di buchi di arma da fuoco, mi vengono i brividi e mi chiedo se davvero ne valga la pena.
Il fienile emanerà una debole luce che batte su un punto del cortile. Significa che lui è all’esterno, al di là dell’entrata anteriore, dove c’è un porticato grezzo. Il silenzio avvolgerà tutta la zona e accompagnerà il buio in uno spazio terribile. Mi troverò lì, in quello spazio, e dovrò agire, scoprire qualcosa. Un piccolo indizio, una voce non sua, uno scontrino fiscale, un mozzicone con rossetto, una confidenza notturna. Qualcosa.
Riceverò la telefonata di una donna dal Senegal. Risponderò dopo essermi allontanata. «Sì. Eccomi».
Dall’altra parte, la voce sarà chiara come se fossimo a un metro di distanza. Urla. «Ancora niente. Ho capito come agire. Non perderò più tempo qui». Non so come mi sia uscita questa sicurezza. «Cosa? Io… Io ho lasciato il lavoro per lei. Non può lasciarmi senza stipendio».
Altre urla. Forse insulti. «Adesso basta! Voglio che lei la smetta di urlare. Mi ascolti bene. Lei mi accrediterà lo stipendio in tre tranches sulla carta prepagata. Come al solito. Lei e io abbiamo un segreto che non sarebbe il caso di portare alla luce, vero? So come devo agire d’ora in poi. Le spedirò un resoconto dettagliato alla casella postale da lei indicata. Non creda che io non sappia perché fa tutto questo. Io ho capito tutto. È ancora in linea? Ci aggiorniamo, allora. Adesso non mi faccia perdere altro tempo, signora Senghor».
Eccoci, Commissario, ci siamo. Finalmente mi hai creata, ora il disegno è completo. Coloriamolo ancora un po’.
Tornerò nel palazzone di nove piani, a Kelvin Road, e aspetterò l’uomo. Dovrò entrare in confidenza con lui, sedurlo, usare le maniere forti. Perché dovrò scoprire cosa nasconde. E tu sai cosa nasconde, vero? Certo che lo sai, sveliamolo a tutti. Lui è un ingegnere informatico, crea videogames per una nota multinazionale. È qui a Napoli perché la società ha scelto questo posto per testare il nuovo gioco in gran segreto. E così lui sta in mezzo agli immigrati, lì, a Marianella, mentre ha un contratto milionario che nega alla moglie dopo averla lasciata. Che bastardo, vero? Passa a moglie e figli qualche spicciolo, li lascia vivere lontani e indigenti, mentre lui, qui, sta per diventare un uomo ricco.
E io, Commissario, io che c’entro?
Io capirò, dopo aver fatto l’amore con lui su quel materasso schifoso. Lasciami almeno il piacere del corpo, che dici, Commissario? Me la concedi una notte col senegalese? Ma lui capirà presto che sono un investigatore privato al servizio della moglie. Lo capirà quando lei sarà arrivata a Napoli, avrà contattato un avvocato e lo avrà spennato per bene.
Oh, troppo banale che sia lei a ucciderlo. Il compito spetta a me.
Sei così solo, Commissario. Ti dici napoletano, ma sei un milanese che nega la sua provenienza e parla un dialetto stentato per farsi più amici in questa terra che è ospitale solo in apparenza. E ci sei riuscito? Lo vedi quell’uomo steso? Io l’ho ucciso, Commissario. Ti sembro un’assassina? Macché. Ti sono sembrata una semplice giornalista, insignificante se non fosse per il mio tubino nero e i miei tacchi a spillo sottilissimi, che scrive sul taccuino una storia che nasce dalla tua testa. Inventi storie, Commissario. Mi riconosci? Ho il volto della protagonista di quel romanzo là, quello che non ti è piaciuto solo perché ti è sembrato troppo vero. Ho gli abiti di quell’altro, te lo ricordi? L’avevi letto per fuggire dal sangue e invece hai trovato, tra le pagine, più morte che nella vita. Ma tu chi sei? E io chi dovrei essere? Sono creata da te, non ho nemmeno un nome. Me lo vuoi dare, Commissario?, ché sono ore che mi guardi, che ci pensi. Sono l’amante del senegalese, l’ho ucciso per amore. Storia mediocre? Sì, lo ammetto. Ma l’hai scritta tu, non io. Perché non ti aiuti, perché non ci pensi un attimo? La morte è più nell’anima che nel corpo. Non guardarlo, il senegalese. Sei tu che hai perso i ventun grammi di anima che avevi quando vivevi la vita. Riprendili. Sei ancora in tempo.
da Chiara
Che minchia di buon Natale
Mi sembrava di avere la testa chiusa in un sacchetto di plastica. Rumori ovattati, come se arrivassero da un’altra stanza; immagini dai contorni cancellati con la gomma; quel gusto di ruggine sottile tra i denti e la lingua, l’odore dell’alito pesante, riciclato. La pelle che brucia.
Sollevai un braccio, quel tanto che bastava per sentire il muscolo tendersi e fare male, tirato da un capo all’altro come se fosse la corda tesa in una gara di tiro alla fune. Chi mi sta tirando da una parte e dall’altra, per Dio?
Non riuscivo a muovermi molto, ogni spasmo una puntura di spillo, ogni respiro quel tanfo e quel gusto che entravano dentro e spingevano giù, ancora più giù, fin dentro lo stomaco. Tentai un mugugno, quel tanto che bastava per farmi sentire dagli altri, nell’altra stanza: ridevano forte, li sentivo gridare come se non esistesse nessuno oltre il salone e quel tavolo attorno al quale stavano seduti, ignorandomi. Il dolore si faceva sempre più forte, lo spasmo continuo tendeva il ventre.
Un’ombra passò oltre la porta, scivolando silenziosa quasi che fosse una barca a vela di notte. Nessuno si fermò a guardare dalla mia parte. Un altro mugugno, quasi un muggito. Cosa ci facevo steso su una branda, al buio, da solo?
L’ultimo ricordo, una risata scomposta, poi il buio.
Lampi di memoria: la macchina, il parcheggio, qualche borsa, delle scale, una porta che si apriva.
Quella risata scomposta, poi il buio.
Dov’ero? Chi ero? Perché la testa era chiusa in un sacchetto di plastica?
Pietà.
Rabbia, tanta, e poi disperazione. Ci sarei morto, lì al buio, con la testa in un sacchetto di plastica. Un sapore dolciastro mi invase la bocca, le narici, arrivò fin quasi alle orecchie. Ecco, lo sapevo. Sarei morto soffocato nel mio stesso vomito, senza nemmeno poter salutare, un addio, una ragione… perché a me?
La barca a vela nella notte tornò indietro, si fermò nello specchio della porta. Era una ragazza, una visione, l’amore della mia vita che non avrei mai incontrato perché sarei morto prima, soffocato al buio senza sapere perché, per come e dove. Cazzo, che sfiga.
No, non era l’angelo della morte, non era il mio amore in potenza, quello che un giorno lontano avrei potuto incontrare se solo fossi sopravvissuto. Era una donna già un po’ in là con gli anni. Minuta, i capelli corti, le braccia sui fianchi, qualche ruga, forse. Un grembiule a fiori. Rossi.
Una voce che conoscevo da sempre emerge dal buio della stanza.
“Guagliò, ma quanto cazzo hai bevuto? Vieni a nonna, ti faccio un caffè di quelli buoni, così vieni di là a giocare a Pinnacola. Che minchia di Buon Natale, te l’ho detto di darti una calmata ma tu noooooo, nonna. Figurati, nonna. E mò vai a vomitare, poi vieni di là. Che minchia di Natale.”
da Gianluca
Ho perso i sensi
Il veglione di Capodanno è un’orgia per i cinque sensi.
Una musica assordante ti rompe i timpani, le luci stroboscopiche ti annebbiano la vista, una puzza di sudore ti annienta l’olfatto, stare appiccicati l’uno all’altro in un locale super affollato ti stressa il tatto e il bere a più non posso ti anestetizza il gusto.
La febbre del sabato sera all’ennesima potenza dove l’unico obiettivo è lo sballo puro.
Alcol misto a droghe per perderli, una buona volta, i sensi.
Io le odio le discoteche, il binge drinking non fa per me.
«Tu non balli?», mi fa la tipa che prima ho incontrato al bar.
«Io? Io aspetto i lenti», le rispondo e lei mi guarda come se avessi assunto l’acido più potente della terra.
«Cosa hai bevuto?», mi chiede sempre più eccitata.
«Una cedrata».
«Cosa hai fumato?», grida in piena estasi.
«Clenil e cloruro di sodio prima di scendere», le sussurro in un orecchio.
Esco dal locale con la tipa sotto al braccio.
Anche a Capodanno, come ogni sabato, i miei amici andranno in bianco.
Io, invece, sono un uomo semplice a cui piace avere il controllo dei propri sensi.
Stiamo progettando una rivista letteraria per aiutare le nuove voci a emergere. Abbiamo sempre la stessa vision: diffondere cultura e talento.
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