Le storie superbe . SUPERBIA
Sete (prima parte)
In 29 Ottobre 2017 da Chiara MenardoC’è polvere lungo la strada. Polvere gialla e grigia, sottile come farina che balla nell’aria e si attacca alla pelle, si nasconde tra i capelli, si insinua tra i denti.
Suda, non c’è parte di lui che non sia umida e appiccicosa come la pelle di una rana, la bocca è così secca che quasi fa male. Le labbra si spaccano, esce del sangue e l’uomo lo beve, ignorando il dolore.
Cammina lungo la strada dritta che sembra non avere un inizio e neppure una fine. Le scarpe sono piene di fori da cui entrano piccoli sassi, insetti, altra polvere. È lacero e stanco, gli fanno male i piedi, non c’è un filo d’ombra. Devono essere le due del pomeriggio e, mentre porta una gamba davanti all’altra come una marionetta trascinata da un burattinaio fatto e ubriaco, cerca di ricordare quando è stata l’ultima volta che ha mangiato qualcosa. Ieri? Il giorno prima?
In uno dei campi, lungo la strada asfaltata e piena di buche, qualche ora prima ha trovato un abbeveratoio per vacche. Una manna, il sollievo: si è buttato nella vecchia vasca da bagno asfaltata di ruggine e si è lavato, ha bevuto ed è rimasto lì, immerso nell’acqua mista a saliva di mucca a godersi quel bagno come se fosse alle terme anziché steso dentro a un catino. Le mucche lo hanno lasciato fare, limitandosi a osservarlo, senza emozioni. Sembra capiscano e gli stiano facendo un regalo, ha pensato in un attimo di gratitudine verso il cosmo e le vacche.
Il sole è alto e rotondo, non ha pietà per un uomo lacero che cammina lungo la strada polverosa di un pomeriggio di luglio.
“Almeno passasse una macchina – pensa – potrei fare autostop. Forse qualcuno mi darebbe un passaggio, magari un sorso d’acqua, perfino gasata. Potrei rinfrescarmi all’aria condizionata, seduto comodo sul sedile davanti, con le gambe distese e un braccio fuori dal finestrino. Potrei fare finta che sia tutto come una volta. Potrei …”
Abbassa lo sguardo sulla maglietta bucata e sui pantaloni troppo lisi per essere considerati decenti, sulla busta di plastica gialla del Lidl nella quale conserva tutto ciò che gli è rimasto: due paia di calze, tre mutande sforacchiate, una maglietta e un paio di calzoncini; un portafoglio, un ciondolo, tre fotografie stropicciate.
Non passa nessuno e, anche se passassero un’auto, o un trattore, o un camion, chi lo prenderebbe con sé, chi si fiderebbe a dargli un passaggio?
Ha caldo e barcolla, i piedi si inciampano. “Fino là, devo arrivare a quegli alberi poi mi riposo”, pensa fissando una macchia di pioppi, immobili, poco distante. Ci arriva sospinto più dal bisogno di ombra che dalle sue gambe, non sa come ha fatto a raggiungere gli alberi e la loro parvenza di fresco.
Si stende sul prato e appoggia la testa sulla busta gialla del Lidl: sente sotto la nuca qualcosa di piccolo e duro e, come fa spesso, affonda la mano per prendere il ciondolo e le tre fotografie.
La donna ha il sorriso pieno di gioia mentre guarda l’obiettivo: sta ridendo con il viso e con gli occhi, tiene in mano un gelato. Crema, pistacchio e melone, ricorda come se fosse ieri il cono più grande che c’era, le risate per l’accostamento barbino: “Solo tu puoi mangiare pistacchio e melone. Hai dei gusti terribili”
“Sto con te, certo che ho gusti terribili!” Rideva e gli sussurrava ti amo con lo sguardo, con le labbra e le braccia, gli sussurrava ti amo con tutta sé stessa e lui oh … lui si nutriva di quell’amore come l’ape regina di miele. Non ne era mai sazio.
Nell’altra foto, un bambino. Aveva tre anni quando era stata scattata, erano al mare. È seduto in spiaggia con il costumino azzurro e il cappellino, nelle mani una paletta e non guarda il papà ma la sabbia dorata e la formina rossa a stella marina, la sua preferita.
Un altro sospiro e l’ultima foto, quella dove erano loro tre insieme, una famiglia di sorrisi e lacrime, di gioia e canzoni. Com’è potuto succedere?
Erano così belli in quella foto, al pranzo per il compleanno di mamma. Il ristorante e i sapori, i profumi del vino e di lei, il suo trucco leggero e la piega appena fatta ai capelli, i calzoncini corti del bimbo, la maglietta bianca di Winnie The Pooh che era rimasta pulita fino alla pasta pomodoro e basilico; il suo vestito in fresco lana, i mocassini lucidi.
Un morso allo stomaco e non sa se è la fame, la sete o la memoria che stringe le viscere mentre è lì, disteso all’ombra dei pioppi in un punto imprecisato tra il qui e il là. Non lo sa.
La catenina sottile pesa tra le mani sporche. La piccola croce d’oro è l’ultima cosa che lo lega a loro: potrebbe farci due soldi per mangiare qualche giorno ma no, non se ne vuole disfare. Quella catenina è tutto quello che gli è rimasto di sacro.
Ripensa ai manrovesci della fortuna. Prima una cosa poi l’altra, i grandi progetti abortiti e le pezze messe in fretta e furia, la ricerca della felicità tappezzata di inganni, il commercialista, il direttore di banca, le tasse, la crisi, le soluzioni troppo facili, le buone intenzioni e la strada per l’inferno… quanto ci è voluto per perdere tutto?
Boh, poco, riflette. Anni per costruire, un momento per distruggere. Due ceffoni di sfiga ben assestati ed eccolo lì, a guardare fotografie ormai sciupate e una catenina, sotto quattro pioppi assetati.
È colpa del caldo, si dice. È stata colpa sua, non mi ha saputo capire. È stata colpa sua, piangeva sempre. È stata colpa sua, non mi è venuto dietro quando gli ho proposto l’affare. È stata colpa sua, non ha accettato le mie proposte e mi ha portato via la macchina il giorno prima di partire per le ferie. È stata colpa sua, mi ha scovato e mi ha chiesto di restituirgli quello stupido prestito. È stata colpa loro, mi hanno proposto una via d’uscita e mi hanno fottuto. È colpa dei grilli, non mi lasciano in pace e non posso dormire, dimenticare tutto almeno per un po’.
Vorrebbe tanto dormire ma ogni volta che chiude gli occhi tornano i vecchi fantasmi: sembra condannato a rivivere tutto daccapo, ogni notte. O, se per questo, anche ogni giorno: ogni volta ritornano gli attimi e con essi i rumori, le parole, le grida, il dolore.
Però ha bisogno dell’oblio del riposo, di lasciare che i piedi stanchi e le gambe riprendano forza per il prossimo tratto del viaggio.
È passato tanto tempo, ormai. Tutto dimenticato, perdonato, espiato. Così deve essere, pensa, mentre guarda le foglie sui rami e brandelli di cielo da cui filtra la luce.
Una cornacchia si posa sul prato poco distante. L’uomo muove piano la testa, la osserva e per un attimo immagina di essere l’ultimo essere umano: è tanto che cammina senza incontrare nessuno. Forse c’è stata una catastrofe nucleare, un’epidemia e sono morti tutti tranne lui, le mucche e i corvi. E quegli stronzi di grilli che lo tengono sveglio quando vorrebbe tanto dormire.
Qualcosa gli punta sul cuore, di colpo apre gli occhi: alla fine, è riuscito a cedere al sonno senza sognare. La luce del sole è come velluto, il caldo non è più così intenso, tutto sembra più morbido: il prato, le colline, le foglie dei pioppi. Ma non si accorge della poesia del tramonto sulla campagna: vede solo il bastone e l’uomo che lo tiene puntato al suo petto. È grosso, alto, con un cappello a visiera, il viso sporco di terra e la barba da fare. Un fratello di sventura, pensa ancora assonnato, mentre stringe d’istinto la collanina tra le dita cercando di nasconderla.
«Che ci fai nel mio campo, barbone?» La voce è rauca da mille sigarette senza filtro fumate tenendo il mozzicone tra le dita ingiallite.
La seconda parte la trovate qui
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