
IRA . Racconti da Kepler
La prima rosa in un tempo grigio
In 29 Maggio 2020 da Il ViaggiatoreSono le 14.10. Sono qui da dieci minuti. Ho i piedi già bagnati. E pure i pantaloni cominciano a esserlo. Il mio impermeabile è una protezione solo parziale sotto un ombrello nero e grande ma comunque non sufficiente. Fa pure freddo qui a 1388 metri in questo primo pomeriggio del 29 maggio 1940.
Mancano ventotto minuti.
Intanto il vento tagliente rende l’aria ancora più pulita e siamo qui in pochi a vivere questo momento: qualche abitante del luogo e un paio di reporter mandati qui per le foto da sviluppare velocemente al giornale; uno si lamenta per il Modena che è ultimo e ormai retrocesso in serie B mentre cerca di tenere accesa una nazionale senza filtro, l’altro simpatizza per l’Ambrosiana al suo quinto titolo e impreca per la pioggia. Tira una brutta aria e non si tratta solo di evidenza meteorologica. La guerra semina morte da otto mesi e le truppe tedesche sono arrivate in Belgio che ha firmato la resa per mano di Re Leopoldo III. In Italia il desiderio di entrare nella Seconda Guerra Mondiale è forte da tempo e manca davvero poco a quel “L’ora delle decisioni irrevocabili“. Passa un ragazzo su un carretto, si finisce troppo presto di andare a scuola: non avrà più di dodici anni e i suoi pantaloni hanno più buchi che tasche e le scarpe grosse devono avere avuto almeno tre o quattro proprietari prima di lui. Mi sorride non curante dell’acqua che scende e continua a canticchiare:
Ma Pippo, Pippo non lo sa
E serio serio se ne va per la città
Si crede bello
Come un Apollo
E saltella come un pollo
se la gusta imitando anche le voci del Trio Lescano, forse incosciente del rischio che potrebbe correre in città se venisse sentito da una camicia nera visto che la canzone ha avuto grossi problemi con la censura: allude ad Achille Starace fino allo scorso anno Segretario del Partito Nazionale Fascista. Si gira ancora e mi fa un cenno di saluto. Ricambio e penso che lo attende la fame, forse più di quella che con cui fa già i conti adesso, ma si risparmierà il fronte; magari diventerà un partigiano. Batto i piedi zuppi e freddi nelle mie scarpe inglesi e ottengo solo il risultato solo di aumentare il mio disagio.
Oggi si corre la tappa numero 11 del Giro d’Italia che arriva dopo un giorno di riposo: partita da Firenze alle 11.40 terminerà a Modena dopo 184 chilometri; oggi cambierà la ventottestima edizione della corsa e verrà consacrato uno ancora ventenne, uno ancora gregario, uno che non è ancora mito. Corre per la Legnano e ha un capitano burbero e campione: Gino Bartali. Lo sport vive di dualismi e di giovani che cercano di scalzare quelli più vecchi, come nella vita. Ginettaccio, come ho letto che lo chiamano, ha sei anni di più ed è caduto nella seconda tappa: un cane gli ha attraversato la strada e le caduta si fa ancora sentire; la squadra lo ha protetto e aiutato a rientrare, ma quel ragazzo no, perché Fausto Coppi era già in fuga a provar la gamba incosciente e talentuosa come poche.
Sta quindi per arrivare un fuggitivo e un uomo alle sue spalle, che qui in vetta avrà sette secondi di ritardo ma non concederà scampo in discesa. Ma cos’è questa Italia che sogna Amedeo Nazzari e Alida Valli e si è affidata un dittatore che la porterà dal fascio allo sfascio? Tra dodici giorni alle 18.00 sentirà alla radio che “La dichiarazione di guerra è stata depositata agli ambasciatori di Gran Bretagna e Francia” l’ultimo passo prima del baratro pronunciato con quell’accento marcato di oltre cento chilometri più in là. Cosa starà pensando quello che diventerà l’Airone e avrà la carriera tarpata e come lui avranno la vita segnata molti suoi coetanei spediti lontano, finiti troppo spesso sotto terra, oppure dichiarati dispersi senza un nome o nella migliore delle ipotesi con la gioventù guastata prima di tornare a vivere in un Paese impoverito e distrutto nel quale riporre tante speranze separando i mattoni rotti da quelli ancora buoni. Dovevano essere solo con vigliaccheria e arroganza “qualche migliaio di morti per sedersi al tavolo delle trattative” e finiranno per essere quasi duecentomila con addosso le scarpe con le suole di cuoio nell’inverno russo o l’elmetto di ferro nel deserto libico. E cosa penseranno gli innamorati che ascoltano C’è una casetta piccina – (Sposi) di Alberto Rabagliati sognando una famiglia tra mille sacrifici e magari dovranno farlo in tutta fretta perché la cartolina chiama.
Oggi s’avvera il sogno e siamo sposi
S’apre la nuova vita nostra
E più gioiosi radiosi verranno i dì
In una soffusa aurora di tenera dolce pace
Sposi oggi s’avvera il sogno e siamo sposi
Tutto risplende a noi d’intorno e luminosi
Ci sembran perfino fior
Sposi siamo alfin mio dolce amor
Coppi sarà arruolato in Fanteria, nel Trentottesimo Reggimento della divisione Ravenna, ma farà in tempo a battere il record dell’ora: 45,871 chilometri percorsi il 7 novembre 1942 al velodromo Vigorelli di Milano; poi sarà guerra in Tunisia e prigionia in Algeria, prima di tornare a casa, alle corse a far discutere i suoi tifosi con quelli di Bartali e a far sognare i ragazzi che lo aspettano per un veloce passaggio in qualche paesino sperduto del paese, dopo aver passato la notte a scrivere il suo nome sull’asfalto.
Passa una macchina dell’organizzazione e alza un po’ di pioggia: i ciclisti si avvicinano. Il vento non concede tregua. Fausto correrà da solo per cento chilometri, incurante della discesa pericolosa prima in asfalto e poi in pietrisco, mulinando con le gambe verso il suo primo vero trionfo e undici giorni in maglia rosa che gli consegneranno a Milano la prima delle cinque vittorie in quel 9 giugno che suona beffardo e di imminente chiamata alle armi. “Duce, Duce, Duce” risuonerà dalla calca incosciente sotto il balcone di Palazzo Venezia il giorno dopo, ma per ora qui c’è solo un applauso forte e commosso a un ex garzone di macellaio dal naso inconfondibile e dalla vita che terminerà troppo in fretta.
In lontananza si sente qualche incitamento e comincio a percepire una moto e una macchina che accompagnano la fuga. Piove e piove senza tregua, qui l’estate non si vede all’orizzonte, almeno oggi. Tornante dopo tornante la corsa sale ed ecco Ezio Cecchi con la maglia grigia con una fascia centrale a strisce verticali nero-azzurre della AMF Gloria, fabbrica milanese di biciclette e moto; dietro di lui Coppi e la sua maglia verde ramarro della Legnano: arriccia il naso e non darà scampo a nessuno, soprattutto al suo acciaccato e mai domo capitano. Il ragazzo di Castellania gli sta soffiando una parte di notorietà, una parte di tifosi, un ricordo da portarsi nella memoria e da raccontare magari al fronte quando la paura è tanta e la nostalgia di una fotografia messa nella tasca vicino al cuore non perdona.
Coppi vincerà la tappa, da solo, la prima delle ventidue conquistate al giro, e strapperà la maglia a Enrico Mollo. In rosa ci rimarrà da qui alla fine della carriera solo altri ventun giorni e dovrà arrivare solo 1947 per ritornare a farlo.
Cecchi conquista l’Abetone e adesso conto: uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette e passa anche lui. Ora inizia la discesa e non solo. Gli altri compagni di fuga inizieranno ad arrivare tra due minuti. Fausto a Modena ci arriverà fra tre ore con 3′ e 45″ di vantaggio sul gruppo dove c’è anche Bartali e si consegnerà alla storia. Nell’incrociare il suo sguardo ho percepito tutta la solitudine di chi fatica su e giù per le montagne, di chi corre contro il cronometro implacabile, di chi sfreccia in pianura tra campi coltivati mentre la vita continua inesorabile e talvolta incurante.
Attendo ora il passaggio non solo di Bartali dopo quattro minuti, in ritardo anche per colpa di una foratura, ma pure quello di Mollo che ormai ha perso la maglia di leader e tutti gli altri, perché i 69 rimasti in gara meritano il mio saluto e il mio grazie per l’emozione regalata.
I vestiti oramai sono completamente zuppi e lo è ancor di più il mio cappello Borsalino così chic e alla moda.
Il peggio sta arrivando e loro non lo sanno. Per me, invece, è ora di tornare.
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