
Letti Nuovi . LUSSURIA
Arrivederci all’inferno
In 26 Marzo 2016 da Debora Borgognoni… TRA TABÙ SDOGANATI E NARCISISMO
Una volta che il romanzo è finito non si dovrebbe chiedere nessun conto all’autore. Non è nemmeno ancora chiaro cosa sia l’autore: utilizzo il cosa e non il chi, perché di certo c’è che l’autore è merce al servizio del mondo. O così dovrebbe essere. «Se l’autore avesse voluto dirlo l’avrebbe detto». Be’, Breton de Saint-Pol Roux parlava di simbolismo, ma le sue parole, per la tautologica intuizione, possono adattarsi a ogni storia. Qui, in Arrivederci all’inferno, secondo romanzo e primo autopubblicato dall’amico Luciano Dal Pont, si dice molto, a volte troppo. Si racconta uno dei tre tabù che in questa società sono rimasti. Perché nessuno si sognerebbe di descrivere positivamente un personaggio che non sia eco-solidale o pet-friendly, ma non è questo il caso. E nessuno parlerebbe mai di pedofilia. Ed è questo il caso.
Eppure una cosa Dal Pont non ce la dice: il perché. Cosa l’ha spinto a raccontare una storia così lorda di sangue e di urla; il mondo ne aveva bisogno? Nel provare a dare una risposta, accenno alla mia sensazione: credo che questo romanzo sia un tentativo di revanscismo. Voi, lettori, non avete accettato il politically correct, e allora prendetevi questa, spalancate gli occhi, non volevate qualcosa di forte?
Questo spunto – perché è clamorosamente unico e palese – mi serve per parlare di ciò che il lettore vuole, e della forma che lo scrittore ha bisogno di utilizzare per essere ascoltato. Narcisistico, certo, nessun autore ne è immune. E badate bene che con autore ora intendo tutti noi: io, Dal Pont, il tal amico di Facebook che pubblica i suoi pensieri, il follower di Twitter che riscrive un racconto in 140 battute, il seguace di Instagram che posta una foto di vita vera, con l’unico filtro imposto dal Social. Potrei andare avanti per ore. Narcisistico oltre ogni confine, e lo dico con affetto, questo autore di nome Luciano Dal Pont, che firma più volte il suo romanzo, e non solo “fuori”, ossia come peritesto logico: autore, titolo, copertina. No, pure dentro, in un finto epitesto che diventa romanzo stesso, creando un interessante gioco di livelli diegetici.
C’è il racconto in stile diario, che sono poi le memorie di un serial killer. C’è la nota del sacerdote che giustifica la sua esistenza (nel romanzo) con una e-mail. C’è Dal Pont stesso che modera il tutto. Insomma, tre “io narratore”, e altrettante letture e riletture delle vicende che l’autore (il Dal Pont del peritesto) chiama horror.
Va bene, ma siamo rimasti al revanscismo rispetto al politically correct. L’autore fa vivere il romanzo anche al di fuori, lo fa vivere un po’ nel mondo, ci tiene che sia così, lo vuole far crescere. E mette in guardia il lettore:
Questo romanzo è riservato a un pubblico adulto. Tuttavia, dati i contenuti horror ed erotici particolarmente crudi ed estremi, se ne sconsiglia in ogni caso la lettura a persone facilmente impressionabili o che possano essere disturbate o infastidite da efferate scene di violenza e di tortura e da esplicite rappresentazioni di sesso depravato.
La classificazione horror giustifica in qualche misura l’azzardato sdoganamento del tabù più caro alla nostra società. Purché non sia uno sdoganamento vero. Manca in fondo il pentimento promesso all’inizio, promesso in termini di codice umano che si tramuta nel romanzo di tutti i tempi (non credo che il lettore accetti del tutto frasi come: «Del resto, credete forse che tutto ciò che ho patito da bambino possa poi avermi portato davvero all’incapacità di intendere e di volere? Credete forse che mi abbia reso incapace di distinguere il bene dal male?», se poi emerge un sadismo cattivo anche nei ricordi: «Provate a immaginare cosa possa aver provato un ragazzino di tredici anni strappato alla sua vita, ai suoi genitori, ai suoi amici, alla scuola, al suo sport preferito, ai suoi sogni […] provate a immaginare questo bel ragazzino, lo vedete? Dai, fate uno piccolo sforzo, non è così difficile, guardate […]»). Ma forse il codice horror è proprio una promessa disattesa: ne prendiamo atto.
Nel romanzo il Male ha vinto, ma Luciano Dal Pont ci rassicura che è tutta finzione. E noi ormai gli crediamo, perché è stato autore, lettore e personaggio per tutte queste 310 pagine di suggestioni e orrori.
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