Le storie superbe . SUPERBIA
La confessione – I Parte
In 17 Gennaio 2016 da Sara MillaI
Il ponte ricongiungeva l’isola con la città. Antico, spoglio, magnificente. Sprofondata nel fiume, la piccola isola conteneva un ammasso di costruzioni decrepite, e un ospedale. Ermete attraversò il ponte, evitando di lasciarsi affascinare dal gorgoglio del fiume e dal vento che spazzava i parapetti.
Una volta nell’ospedale si recò all’accettazione per essere ricoverato. Il cielo sopra il cortile dell’ospedale era integro come quello di Malta, il suo paese, e questo lo inquietò, che proprio ora vedesse quel cielo che costituiva da sempre il suo primo ricordo. Lo assegnarono ad un reparto e gli indicarono la sua stanza e il suo letto. Doveva solo fare delle indagini, era più comodo ricoverarsi, gli aveva detto il suo Vescovo, ed aveva obbedito.
La stanza era a due letti, altre erano a sei letti, si ritenne fortunato. C’era anche il bagno. Lo perlustrò. Il letto accanto a lui sembrava intatto. Per ora era solo, dunque. Sistemò la sua biancheria nell’armadietto traendola da una borsa in finto cuoio marrone. Gli dissero di indossare il pigiama, ma si attardò a farlo, francamente non aveva nessuna fretta di farsi inghiottire dall’ospedale. Nel cassetto del comodino dispose i suoi libri. Aveva avuto l’idea di comprarsi una mezza bottiglia d’acqua, l’aprì e bevve un sorso. Poi si accostò alla finestra e questa dava sul fiume che ammassava detriti accosto alla roccia, e fluiva con una rabbia incostante. Gli sembrò bellissimo e lo strapiombo pauroso, e che quello non fosse un ospedale ma un carcere, ed ogni pietra porosa e muffita non suggerisse altro che l’idea della fuga.
– E’ ancora vestito? Tra un attimo le facciamo un prelievo, si metta più comodo -, annunciò un infermiere affacciandosi sulla porta. Questo agitò il silenzio della stanza, l’idea che sarebbe rimasto lì davanti alla finestra dimenticato per qualche ora, giorno, o per sempre. Il pigiama di cotone celeste gli sembrò freddo. Si accomodò sul bordo del letto e attese. Era ancora giorno pieno, il sole non si era stampato rosso di tramonto sulle finestre, che già avanzava dal fondo del corridoio il carrello con la cena. Avrebbe voluto pregare, ma non gli andava, ogni disciplina si infrangeva contro i muri spogli, il cielo opaco e vibrante che si intravedeva oltre la finestra, il freddo suono dell’acqua indifferente che erodeva e frantumava le fondamenta dell’edificio al centro del fiume.
Ermete mangiò svogliatamente la sua cena per diabetici. Non capiva perché si era così impennato il suo male, aveva sempre seguito tutte le istruzioni, già da bambino, e praticato le piccole iniezioni, in qualsiasi posto si fosse trovato. Solo una volta aveva dimenticato, un giorno di sole forte in cima alle scogliere di Dingli, sul bordo delle falesie. Il panorama era intenso, un rotolo di nuvole rifletteva la sua ombra sulla scogliera. E lui aveva dimenticato. Il tempo di fare un sospiro profondo e si era ritrovato a terra, in piena crisi, solo. Poi era accaduto il resto. La vocazione e tutto. La notte non arrivava mai.
Ad un certo punto, si spensero tutte le attività, il brusio che giungeva dalle altre stanze tacque. Era ancora molto presto, ma quel silenzio non poteva significare che si era fatta notte ed era meglio dormire. Rimase al buio a fissare il chiarore giallo della finestra, illuminata di riflesso da un lampione antico che inondava tutto lo slargo sottostante, dove d’estate davano il cinema all’aperto. Non aveva caldo né freddo, ma non poteva riposare su quel letto straniero. Lasciò passare le ore, e all’alba quel sonno intermittente lo aveva sfinito. Qualcuno lo chiamò mentre armeggiava sul suo braccio: – Il prelievo, Ermete. – Lui annuì. Poi passò il cappellano e non ebbe il coraggio di comunicarsi in quello stato di incoscienza, e fece debolmente di no con la testa, continuando a rimanere immerso in quella zona tra il sogno e l’incoscienza.
Finalmente la luce ridefinì la stanza e lui dovette svegliarsi del tutto. C’era in fondo al letto il tavolo e sopra il vassoio con la colazione. Inzuppò la fetta biscottata che sapeva di sego, nel te. Ripiegate in un quadratino di garza, due pillole. Le mandò giù senza chiedersi cosa fossero, con una fede nell’ospedale più cieca di quella che avesse mai avuto in Dio. Dopo essersi lavato fece un giro nel corridoio, tanto per dare un’occhiata, e per prendere confidenza con qualche ammalato. Non aveva voglia di avvertire i suoi familiari, né di pensare a casa sua. Non gli era mai capitato di avere nostalgia come in quel periodo caldo e soffocante, dove la città gli sembrava raggomitolata sul suo petto, pronta a premere e a distruggerlo. Ogni stanza raccoglieva molte storie e sofferenze, e per la prima volta si accorse di non riuscire a rimanere sereno. Si rifugiò nel suo letto, e dopo qualche breve preghiera, si addormentò. In particolare, sognò un paese dove era stato parroco, ma per poco. Un aspro paese estraneo, sperso su una montagna di rocce.
Neppure le strade erano asfaltate, e la sua chiesa non era che una stalla. E c’erano poche case radunate intorno, rari boschi, rapinati il più possibile per vivere. Sembrava un mondo antico, perduto, inospitale. La gente aveva il viso segnato dalla fatica, dall’assenza di modernità, a volte perfino dalla fame. Essere assegnato a quel posto sfortunato lo aveva umiliato. Forse lui non era un brillante predicatore, forse i suoi studi non erano stati così rapidi, forse la sua fede non contava nulla e comunque era sempre un po’ reticente, forse non era comunicativo, simpatico, obbediente. Aveva avuto modo di riflettere, mentre si aggirava nella sua stanza fredda riscaldandosi alle fiamme dell’orgoglio ferito. Si era presentato dal pulpito, non aveva fatto visita a nessuno e nessuno aveva bussato alla sua porta. Non sapeva neppure se fosse il caso di spiegare il vangelo a quel gruppo di anime senza sguardo, infagottate sia d’inverno che d’estate, misteriose. Quasi ingiustificate. Niente a che vedere con l’idea di quartiere cittadino che si era impressa nella sua smisurata presunzione. Niente a che vedere con l’oratorio fervido di attività che lui aveva in mente, con le relazioni missionarie, con le udienze dal papa assieme ai parrocchiani che aveva sempre immaginato. Non c’era che un paese silenzioso, fin quando il vento e i lupi non vi facevano un po’ d’allegria, in inverno. Ora lo sognava, erano passati tanti anni, lui aveva un aspetto diverso, più massiccio. Eppure con quell’abito di carne maturata e pesante si aggirava nel paese e bussava alle case, una per una, incessantemente. Fino a che, il pomeriggio inerte non si tramutava in una notte lunare. Non c’era che il passo dei lupi, dietro di lui, piegato sui gradini sbreccati di quelle ruvide case. Cos’è il peccato? Ripeteva. Il paese si popolava di lupi, arrivavano in silenzio e si accucciavano, si avvicinavano, ma non c’era timore. La notte era splendida e deserta di uomini.
Qualcuno gli bussava sulla spalla: – Padre, padre – Ermete aprì lentamente gli occhi. Di fronte a lui qualcosa era cambiato, il letto era occupato da un signore mezzo calvo, la sedia da quella che doveva essere la moglie, una donna nervosa e bionda. L’infermiera di fianco al letto si scusò di averlo svegliato, ma doveva prepararsi per una ecografia. Si sentiva male e confuso, ed aveva sete. Salutò il suo nuovo vicino e poi andò in bagno a darsi una rinfrescata. Si lasciò condurre dall’infermiera verso i piani inferiori, dove si praticavano gli esami dietro porte chiuse, lungo corridoi grigi e tristi come una stazione di notte.
Sara Milla è educatrice, scrittrice e organizzatrice di eventi culturali e mostre d’arte a Roma, dove vive. Ha pubbicato due libri:
- Il rischio della formica – Epika edizioni
- Il rifugio – Ottolibri
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