
IRA . Racconti da Kepler
Chiamatemi Ismaele – Storia di una baleniera e di un romanzo
In 20 Novembre 2015 da Il ViaggiatoreIo sono qui, sopra la Essex, ho eseguito tutto con maniacale manierismo, ho sbirciato sul diario di bordo, ho ascoltato le conversazioni. Ve lo racconto perché è il mio lavoro (o la mia missione visto che vengo da un altro pianeta?), ma il mio interesse va già oltre, e tra poco ve lo paleserò.
È lunedì 20 novembre 1820, stanotte ci sarà la luna piena, e qualcuno non la vedrà. Sono partito un anno fa con questa ciurma da Nantucket, Massachusetts, abbiamo doppiato faticosamente Capo Horn, ma il grasso di balena a bordo non basta, ci affacciamo all’inverno. Il Capitano Pollard ha deciso di raggiungere terre inesplorate al largo del Pacifico, si sa cos’ha in mente: aumentare gli 800 barili di grasso finora guadagnati.
La vedetta annuncia la vista di capodogli. E io so già cosa succederà da qui in poi: la realtà che riserva un finale tragico, uno dei tanti che accaddero, accadono e accadranno nella storia dell’umanità, la maggior parte dei quali destinati a rimanere ricordo di chi rimane, punto.
Invece questa Essex gli umani se la ricordano. Ricordano quello che più spaventa loro: il cannibalismo, il doversi cibare di carne umana, di quella di un compagno, per sopravvivere. Di qualcuno che ti ha raccontato la sua vita, le sue opinioni, che hai a volte stramaledito, di cui hai visto e inconsapevolmente studiato ogni espressione.
Se la ricordano perché c’è un romanzo che comincia così: «Chiamatemi Ismaele». Ismaele potrei essere io, ora, sulla Essex. Solo che lui è un uomo che appartiene al mare come pare già chiaro, persino sibillino, nell’incipit: «Ogni volta che mi accorgo di atteggiare le labbra al torvo, ogni volta che nell’anima mi scende come un novembre umido e piovigginoso, ogni volta che mi accorgo di fermarmi involontariamente dinanzi alle agenzie di pompe funebri e di andar dietro a tutti i funerali che incontro, e specialmente ogni volta che il malumore si fa talmente forte in me che mi occorre un robusto principio morale per impedirmi di scendere risoluto in strada e gettare metodicamente per terra il cappello alla gente, allora decido che è tempo di mettermi in mare al più presto». E allora io vi parlerò di lui, il protagonista narratore del romanzo pubblicato il 14 Novembre 1851 dalla casa editrice Harper & Brothers di New York.
L’autore di queste parole enfatiche, eppure non senza una certa leggerezza, è inconfondibile: Herman Melville.
Moby Dick; or, the whale è un romanzo di un migliaio di pagine, che ricorda un’enciclopedia per i dettagli e le dissertazioni su caccia alla balena e vita di mare, impregnato di avventura e di sapori sconosciuti, ricco di spunti filosofici spesso un tantino criptici, di domande che rimangano nell’aria e a cui l’uomo difficilmente sa dare una risposta.
La Essex, affondata da un capidoglio il 20 Novembre 1820, è solo una parte della storia. C’è anche quella dell’uccisione, nel 1830, della balena bianca Mocha Dick al largo di Mocha, Cile. Così Moby Dick racconta la lotta in mare della nave Pequod («un veliero cannibale, che si ornava delle ossa cesellate dei suoi nemici») dopo l’attacco dell’omonima balena, che diventa quindi simbolo contrastante di Bene e Male.
Io sono Ismaele e lascio al lettore il piacere di conoscere più da vicino il misterioso Capitano Achab, che «sembrava un uomo staccato dal palo del rogo, quando il fuoco ha devastato le membra percorrendole tutte senza consumarle e senza portar via una sola particola della vecchia e compatta robustezza», l’uomo che «è stato all’università e insieme ai cannibali».
Quello che accadrà da qui al 9 aprile 1921, giorno in cui i tre naufraghi – Thomas Chappel, Seth Weeks e William Wright, saranno tratti in salvo dall’atollo di Henderson, sarà scoperto solo più tardi. Rimane una frase di Melville che i superstiti non avranno potuto fare a meno di sentire come un richiamo e un monito: «Moby Dick non ti cerca. Sei tu, tu che insensato cerchi lei!».
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