IRA . Lettere dall'Ira
La terra dei papaveri
In 10 Settembre 2021 da Chiara MenardoÈ l’intonaco rotto, sono le pietre e i mattoni. Mi scaldano la schiena, i palmi delle mani, la nuca. Stringo gli occhi: il sole è così forte che non vedo chi mi sta davanti. Sento solo le loro voci e, in fondo, è meglio così: preferisco non vederli.
Preferisco ricordare.
Il profumo di polvere ed erba che si perdeva nel vento leggero. I rami di quell’unico albero, le foglie che cominciavano a seccare nel calore di giugno. I campi di papaveri bianchi e rosati, bianchi e rossi. Il cielo, le nuvole: libere, loro, di andare ovunque volessero.
Le ciglia che si erano alzate appena un istante per poi tornare a chinarsi sulle corolle dei fiori. Un attimo piccolo, passato troppo in fretta, aveva deciso che ne sarebbe stato di me. Di noi due.
Tutto. Mi sarei giocato qualsiasi cosa per i suoi occhi scuri, per la sua risata, per le chiacchiere seduti, la notte, sul bordo di un pascolo buio mentre le stelle, su in alto, scendevano verso di noi a guardarci. Io lo so che ci invidiavano. Mi sarei giocato qualsiasi cosa per stringere le sue dita tra le mie.
Sapevo che avrebbe potuto finire così, certo che lo sapevo. Che è vietato, che non si può, che se ci avessero scoperti avremmo pagato. La legge è nota, non ammette eccezioni. La legge è spietata, inumana perché viene dall’alto, da un posto molto più in alto di noi.
Eppure, mi chiedo ancora adesso che sto per rendere conto del mio reato, come possono punirci così? Perché? Che senso hanno divieti e vincoli, a cosa servono queste catene, cosa volete da noi?
Trovarci la notte in segreto, accampando scuse per uscire. Il primo bacio, la prima volta, con gli occhi aperti e le orecchie tese, ascoltando i rumori intorno, attenti che non arrivasse nessuno.
Gli sguardi pieni di scandalo. Loro.
Pieni d’amore. Noi.
Che male vi faccio? E che male faccio a quello lassù, che dicono guardi e mi giudichi, giudichi noi, due formiche minuscole che non fanno del male a nessuno? Perché, mi domando, ci odia così tanto? A me, in fondo basterebbe poco, così poco. Un tetto e un briciolo di libertà, potermi svegliare e guardare i suoi occhi, addormentarmi sapendo che c’è, che è lì con me. Cosa c’è di sbagliato, Mullah? Cosa mai abbiamo fatto di così terribile?
Abbiamo ripetuto la legge fino allo spasmo, seduti sul pavimento, appoggiati a tavoli traballanti e scheggiati. Una parola dopo l’altra, ancora e ancora. Conficcate nel cervello ma non dentro il cuore. Io non l’ho capito mai, non lo capisco ancora adesso, il perché. Non ci hanno spiegato i motivi: lo dice dio, e questo ti basti. Ripeto i versetti, ancora e ancora, un giorno dopo l’altro, da quando ero bambino fino ad adesso, ripeto e ho imparato a memoria. Dicevano che questo è quello di cui avevo bisogno. Non devi capire, dicono. Obbedisci e sarai un probo. Se sei probo, nulla hai da temere in questo mondo e nell’altro, dicono.
Io non sono probo, non sono retto, ma non l’ho certo voluto, non ho cercato. Non ho cercato il suo sguardo, quell’istante in cui ha alzato gli occhi e mi sono perso dentro a un pozzo scuro e profondo da cui non sono più emerso. Non ho potuto. Non ho voluto.
Null’altro al mondo mi ha mai scosso così, niente come quegli occhi mi ha mai legato con così tanta forza. I nodi di un tappeto prezioso, quegli occhi intrecciati ai miei. Preziosi ed antichi, più forte di forbici e di quei piedi sporchi che lo hanno calpestato senza pietà e continuano a farlo. Noi siamo più forti di tutto. Anche del muro, dei loro fucili e delle mitragliette che reggono fieri.
Siamo più forti di loro, qui, in piedi a sentire le lievi onde di caldo che si staccano dal muro e vengono ad accarezzarci, quasi per dirci di stare tranquilli, che andrà tutto bene, sarà solo un istante e non farà poi così male. Che c’è un paradiso per noi, senza le vergini e il miele e i banchetti.
C’è un paradiso di sguardi che durano una vita e un istante, di mani intrecciate di fretta, di campi di papaveri rossi e di colline non aspre spazzate da polvere e vento ma spazzolate dal fiato leggero di un dio che capisce – sempre che esista quel dio – che va tutto bene finché ci si ama.
C’è un paradiso senza paura o pistole. C’è un paradiso in cui potremo sorridere anche se saremo scoperti.
C’è un posto che non è questo, in cui staremo bene per quello che siamo. Non può essere di questa terra, quel posto. Di certo, non della mia.
Mi mancheranno le montagne senza foreste, i sentieri che si arrampicano come ragni ostinati fino alla cima per poi scendere e salire di nuovo, le vallate strette e i fiumi secchi in estate. Il freddo in inverno, la polvere tra i denti e i capelli. Mi mancherà la durezza dei miei luoghi. Mi mancherà lui, che amo più della mia stessa vita.
E saremo insieme. Oppure no. Il paradiso è la consolazione degli ultimi istanti. Non c’è nulla di là: quasi come da questa parte, in cui la vita non è vita ma parole recitate a memoria e regole assurde, e punizioni.
E allora puniteci perché ci amiamo, fatelo adesso che il muro ci scalda la schiena e abbiamo il sole negli occhi ad accecarci, fatelo subito e smettete di urlare. Che finisca questo frastuono d’inferno, di maschi barbuti e bercianti con le mitragliette che sparano in aria, con gli occhi pieni di rabbia e le bocche contorte che urlano insulti. Femmine femmine, urlano. Che dio vi maledica, gridano. Che…
Che facciano e dicano quello che vogliono. Io credo in altro, credo solo a quegli occhi e alle nostre dita intrecciate, credo alla gru che sta dietro al muro e che, in qualche momento futuro, tra poco, tirerà un paio di colpi ai mattoni. Resteremo lì sotto a morire, ma insieme.
Noi. Due uomini.
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