IRA . Lettere dall'Ira
Coma irreversibile
In 18 Novembre 2022 da Chiara MenardoQuesto non sono io. Io non sono mai stato così.
Io ero una torre di pietra. Alta, indistruttibile. Uno spuntone di roccia che non cedeva al vento, eterno. E adesso sono sottile, come il bordo di una tovaglia di pizzo. Trasparente.
Il bordo del pozzo mi fissa, senza la luna sul fondo. Tremola qualcosa, laggiù, sembra una coperta morbida che mi sta aspettando ma resisto. Finché riesco, non cedo di un passo, attaccato a un tubo e a qualcosa che c’è ancora, qui dentro. Io.
Che non ho più voglia di stare. Perché in fondo è vero, questo pacchetto incartato nella carta crespa non sono più io, e non so se rimanere ancora o andarmene via, guardare il fondo del pozzo e lasciarmi cadere lì dentro, nel tubo scuro dal quale non sale nessun tipo di eco. Io non lo so cosa fare, da quello che ero a ciò che sono ora. Un pupazzo riempito di chicchi di riso. Alzo un braccio, lui cade. Giro la testa, lei lì rimane. Eppure, ero una quercia.
E adesso, chi sono? Anzi, no. Cosa? Certo non sono io. Qualcosa ha preso il mio posto, i miei movimenti, la pelle e le viscere. E mi ha ridotto così, un tubo con qualche ansa tra l’entrata e l’uscita.
Senza domani. Ma non ho voglia di andare. E neanche di rimanere qui, così, appoggiato a giorni sempre uguali, che non passano mai. E nemmeno le notti. Ombre e luce che si fanno di minuto in minuto più deboli e poi tornano, moti infiniti di un’altalena che non riesce a fermarsi. Pensavo di essere eterno, invece non vedo l’ora che finisca questa eternità immobile che non passa mai. Uguale, tutto uguale. Il soffitto, le pareti, le lenzuola, le mani guantate che mi girano e mi pasticciano tutto.
Il rumore continuo di macchine invadenti che segnano tempi e modi del mio stare qui, con gli occhi che si chiudono a volte, si aprono a volte, spesso restano lì a metà, né aperti né chiusi.
Scivolano silenziose delle ruote di gomma, fuori da queste pareti bianche. Sento gente che parla e sussurra, e tonfi quando qualcosa cade, e risate e a volte qualcuno che piange. Sento altre macchine che segnano altri tempi e modi dello stare qui di qualcun altro che non so chi sia ma è mio simile, mio fratello, mia sorella.
Anche tu ti ci sei trovato senza sapere perché? Un giorno sei uscito di casa e dopo eri qui, e non hai idea di quanto tempo sia passato, di quello che ti sia successo, sai solamente che un attimo prendevi un caffè, e la macchina, e ricordi il tragitto dal marciapiede allo sportello. Un euro e dieci, ristretto. E anche quel croissant con la marmellata. Non era granché, ma sempre meglio di… niente.
E il freddo della maniglia del bar sotto il palmo della mano, il telefono che squilla e gli auricolari, la gente che passa e il profumo di piombo, di nebbia e di smog. Il bip del telecomando, le frecce si accendono, il marciapiede. Monopattini e gente che passa. Ragazzi, ragazze, signore con il carrello della spesa che le sdruscia appresso come un barboncino a rotelle. Le finestre intorno, le auto che passano. Ogni dettaglio è qui, dentro la testa e lo percorro come un sentiero che ormai conosco a memoria. Il sedile di velluto, il volante, la freccia, il traffico. E poi?
Io non lo so se qui voglio restarci ancora. Una volta pensavo che hey, che figo essere vivi. Ma non c’è niente di figo in un’altalena immobile tra coscienza e incoscienza, ombre e ricordi sepolti che a volte si scrollano di dosso il terriccio e si mostrano per un solo istante. Non c’è più niente, nell’essere me.
Viene ogni giorno a trovarmi e mi parla. Mi tocca, ha gli occhi arrossati ed è stanca. Vengono in tanti, ogni giorno sempre meno. I primi giorni era una folla. Tutti con gli occhi arrossati, chi più stanco, chi meno. Ora vengono solo “i parenti più stretti”. Che imbarazzo stare qui a farmi guardare senza dire nulla, senza un movimento, senza più esserci.
Io ero uno spuntone di roccia sul bordo del mare in tempesta. Io ero un albero alto e forte, e adesso sono un sacchetto di plastica vuoto, riempito di aria da una pompa rumorosa che mi gonfia e mi sgonfia ma non copre le voci quando dicono nessun cambiamento, non può esserci nessun miglioramento. E io voglio andare via, anche se una volta pensavo che non fosse giusto, che vale ogni attimo, finché gli attimi non sono diventati soffitto e finestra quando mi girano dal verso giusto, ombre che tremolano dal cerotto e dal gel sulle palpebre.
Fatemi andare via, basta. Anche se un tempo ero contro, lasciatemi libero di scendere al fondo del pozzo e vedere che c’è. Di certo anche il nulla è meglio di questo restare appoggiati sul bordo dei giorni e delle notti infinite ad aspettare che un attimo prenda il posto di un altro attimo, sempre uguale a sé stesso.
Lasciatemi libero, vi sto supplicando. Basta. Non giratemi più. Non bucatemi più. Basta guanti di lattice e siringhe. Basta tutto. Mi duole ogni osso, tendine e vena. Lasciatemi stare, fatemi andare via.
Qui non ha più senso restare, e io ci provo, a dirvelo, ma non ho più la forza. Ho gridato, la voce si è persa da qualche parte tra le corde vocali ed i denti. Vi sto supplicando, ma è inutile: ormai non sono più mio. Io, che ero una nave d’acciaio capace di sfidare ogni mare, vi chiedo solo di farmi affondare con quel poco di dignità che ormai non ho più.
Per pietà, se ne avete: lasciatemi libero.
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