IRA . Lettere dall'Ira
Kamloops
In 9 Luglio 2021 da Chiara MenardoHo 5 anni, i capelli lunghi, neri, corro in mezzo alla neve, vado a giocare nell’aria fredda e scura e poi torno a casa. Ogni sera, torno a casa da mamma.
Ho 30 anni, un velo e un abito lungo. Una croce dorata si appoggia al mio petto, un rosario penzola molle dalla cintura della veste e a ogni passo dondola come un’altalena nel vento.
Ho 56 anni, la barba e pochi capelli. La veste nera. Il libro dalla copertina di pelle sempre con me, a portata di mano, mi dice c’è qualcosa di più importante di me. Ma, soprattutto che c’è qualcosa di più importante di loro.
Ho 47 anni, una borsa di cuoio piena di carte e una valigia. Il biglietto del treno in tasca e il cappello. Trascorro la vita tra una stazione e un’altra, tra un’ispezione e un’altra, tra aule e dormitori tutti uguali, in mezzo ad adulti e bambini tutti uguali. Centinaia, migliaia di camerate, di visi e di occhi. Tutti uguali.
Ho visto mamma piangere seduta per terra. Teneva una lettera in mano e piangeva. Due giorni, diceva. Tra due giorni. Ha alzato gli occhi e si è guardata intorno. Dobbiamo andare via, ha detto. Ti portano via, ha detto. Non c’è più tempo per radunare le cose, organizzare, spostare. Se non ti lascio andare con loro, mi metteranno in prigione. In quel momento hanno bussato. Mamma ha iniziato a gridare, io ho pianto. Ricordo solo lo strattone quando mi hanno portato via. Ricordo le braccia di mamma che cercavano di tirarmi a sé. Ricordo una macchina e la casa che si allontanava. Ricordo mamma che correva, gridando il mio nome.
Quando arrivano, hanno occhi impauriti. I capelli lunghi e arruffati, i vestiti colorati. Non le capisco, le loro parole dal suono sgradevole come un ingranaggio che cigola, privo di olio. Ma non è importante, sono qui per cambiarli. Sono qui per insegnare loro qual è la Verità. L’unica. Sono qui per salvarli, che a loro piaccia o no. Sono qui per infilare la Redenzione dentro quelle piccole gole pagane. A tutti i costi. Con le cattive, perché con le buone le bestie non si addomesticano.
Benedetto sempre sia il suo nome. Benedetto sempre sia il giorno in cui mi ha chiamato a sé, a servire la sua gloria. Benedetta la sua parola, nel nome della quale posso essere suo braccio sulla terra. Benedetto sia lui, che ha benedetto me. E quei piccoli. Benedetti anche loro, strumento del suo volere, che mi ha incaricato di plasmare di nuovo da zero, mucchietti di fango da trasformare. Benedetti quegli occhi scuri e quei piccoli corpi. Benedetto sempre sia il mio compito. Strumento e arma del signore. Benedetti quei piccoli corpi e la loro dolcezza, il loro timore, la pelle morbida e le mie mani.
Trascinare la valigia da una camera a un’altra. Tutte uguali: un letto gibboso, un crocefisso sul muro, un comodino squadrato, un tavolo e una sedia. I refettori, le scodelle sbeccate. I bambini che si alzano in piedi, e non distingui i maschi dalle femmine, tutti con gli stessi capelli tagliati con le cesoie e le facce tonde e scure. Le bambine hanno la gonna, cantano canzoni di chiesa e hanno le mani screpolate, qualcuna ha segni sul collo e sulle gambe e recitano le loro poesiole. I bambini con le salopette, i denti scheggiati e imparano a riparare lavandini o a usare un aratro. Le notti. Le notti non passano mai, non c’è mai silenzio: gemiti e pianti, urla e colpi. Le notti sono i momenti delle punizioni. Per tutti, anche per me che non riesco a dormire. Ma il governo mi paga. Devo ricordarmi di comprare i tappi di cera.
Fatti il bagno, sei sporca. Lavati, frega con la spazzola dura sotto l’acqua fredda, e il mio maglioncino rosso adesso non c’è più. Lo hanno bruciato, puzzava ed era pieno di pulci, hanno detto. Me lo ha fatto la mamma, quella camicia ruvida e grigia io non la voglio, voglio tornare a casa mia a giocare nella neve. Non piangere, mi ha detto la donna alta con la testa coperta da un velo, una croce sul petto e le mani cattive mentre mi tirava i capelli e li tagliava di netto con forbici grandi. Non piangere, ha detto, ma la sua è una lingua che io non capisco. Non piangere, ha detto mentre piangevo. E poi mi ha colpita in faccia. Una, due, tre, mille volte. Per anni.
Our Father who art in Heaven hallowed by thy name. Ripeti, ripeti ancora una volta. Our Father. Ancora, di più, piccola ignorante. Mostra rispetto per me e per nostro signore che ti concede di conoscere il suo beato volto, che ti ricopre di grazia, pidocchio. Ringrazia ogni giorno il tuo salvatore, ringrazialo perché ora ci sono io e non tua madre con te. Perché non ti consentiremo di vivere nel peccato della memoria di un mondo senza la grazia di dio. Provaci ancora, a piangere, mocciosa. Dai, fallo. Ci vediamo stanotte.
Sgranare di giorno i chicchi intorno a quella catena ripetendo le mie litanie, circondato da corpi acerbi, ancora da cogliere. Pentirmi subito di ogni pensiero, ogni immagine peccaminosa che mi tormenta. Non ho il coraggio di farlo, resisto alla tentazione ma so che succede. Non faccio nulla per fermare gli abomini che accadono sotto questo tetto. Passeggio la notte nei seminterrati, per i corridoi, nel refettorio, in ascolto. Mi lascio guidare da parole sussurrate e gemiti soffocati: li individuo, come un lupo in caccia che segue una debole pista: inservienti, altri ragazzi, sorelle e fratelli che spremono piacere da quelle giovani vite. Li trovo, li scovo. Mi nascondo in un angolo buio e li guardo, la mia mano scende. Poi torno in camera e chiedo perdono.
Compilare pagine e pagine di relazioni. Aggiustare, così mi hanno detto, è il mio compito. Ben nutriti, ben trattati, educati, quasi amati. Questo è ciò che mi hanno detto di scrivere. che va tutto bene. Chi, prima di me, ha provato a mettere nero su bianco quel che succede davvero, il posto lo ha perso. Cancellare ogni memoria. Di quello che erano gli ospiti, della loro storia, di quello che accade tra le mura di questi istituti. Tanti, tantissimi. Mi piace? Certo che no. Ma, dopotutto, non sono integrati. Non sono conformi alla nostra civiltà: la cosa migliore è cambiarli sin da bambini. E se non vogliono cambiare, pazienza. Lo faranno comunque, in un modo o nell’altro. Io ho una famiglia da mantenere.
Fa freddo. Fa male. Il latte era cagliato, mi ha fatto venire male alla pancia. Ho vomitato a colazione. Mi hanno detto di mangiare il mio vomito. L’ho mangiato, ho vomitato di nuovo. La sorella vestita di nero con il crocefisso appoggiato sul seno mi ha presa di forza, tirata su dalla sedia. Gridavo di non farlo. Lo gridavo in inglese. Non mi ha ascoltata. In cantina, il bastone scendeva veloce sulla mia schiena. La sorella gridava, il padre guardava senza far nulla. Non l’hanno fermata neanche quando mi sono accasciata sul pavimento di terra: ha continuato, prendendomi a calci finché non ho visto più niente, sentito più niente. Finché non sono stata più. Adesso sto meglio: non ho più visto la mamma ma almeno, dopo quattro anni qui dentro, non soffro.
Una più, una meno, che importa. Scriva, ispettore, che era ben curata, che ha preso una polmonite perché usciva a giocare in inverno, con il freddo. Scriva, ispettore, che va tutto bene, la gloria del signore lo impone. Glielo dica, padre, che è questo che vuole la nostra missione, che è questo che ci ha chiesto di fare il governo. Portare la parola di dio a quelle bestiole, renderli persone migliori, renderle noi. Con qualsiasi mezzo. Ma non possono essere come noi, loro sono ormai marci dentro, dopo secoli e secoli a sguazzare nel fango, lontani dalla grazia di dio. Glielo dica, padre, lo dica qui, davanti a questa buca profonda perduta tra tante altre buche. Cosa dice, ispettore? Una lapide? E, di grazia, mi dica: a che scopo? Scriva che va tutto bene e dimentichi in fretta. Tanto, nessuno li ricorderà mai.
In Canada, negli anni tra il 1870 e il 1997, più di 150.000 bambini appartenenti alla First Nation, nativi di etnia Inuit e Metis, sono stati prelevati a forza dalle loro famiglie e condotti in 139 residential schools sparse per tutto il paese. Motivo: cancellare l’appartenenza storica, linguistica e culturale di un popolo considerato inferiore, in quanto non bianco, non “canadese”, non cristiano. Le Residential Schools, istituite nel 1876 con l’Indian Act, vennero date in gestione dal governo canadese principalmente (per il 70%) alla Chiesa Cattolica. Partecipavano a questo sistema anche la chiesa Anglicana, quella Presbiteriana e la United Church of Canada.
A partire dagli anni ’60 del ‘900, il sistema degli istituti fu gradualmente depotenziato e sostituito con le adozioni forzate di bambini nativi sottratti senza validi motivi alle loro famiglie di origine a famiglie canadesi: tuttavia, le scuole rimasero aperte per altri 30 anni.
Nelle Residential schools il tasso di mortalità dei bambini, a causa delle condizioni di vita, degli abusi fisici, sessuali e psicologici e per il regime alimentare insufficiente e di pessima qualità, era da due a cinque volte superiore al tasso medio di mortalità infantile del Canada. La Commissione per la verità e la riappacificazione, istituita dal governo canadese per gettare piena luce su questo fenomeno, ha definito la politica governativa, e il sistema che ne è scaturito con l’appoggio attivo delle istituzioni religiose, un genocidio culturale.
In questi anni, diverse tombe senza nome sono state e vengono tuttora ritrovate nei pressi dei siti ove si trovavano queste scuole: al momento, si stimano circa 4.000 corpi ma, probabilmente, è una cifra destinata ad aumentare. L’ultimo bambino morto – documentato – in una residential school risale al 1971: aveva 14 anni. L’ultima residential school canadese è stata chiusa nel 1997.
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