
DiarioXY . LUSSURIA
Finglas riposa
In 4 Febbraio 2017 da Chiara Menardo
C’è stato un tempo in cui mi svegliavo ogni inverno.
Sentivo salire e scendere la vita, dentro, non si fermava mai. Piccole formiche liquide che correvano dal basso all’alto, fino alla più minuscola parte di me. Era così bello. Un solletico, una carezza, una voglia.
Aprivo gli occhi e guardavo i miei alberi, il prato; ascoltavo il canto affrettato dell’acqua e dei sassi, così come quello lento dei primi fiocchi di neve che si posavano senza peso su di me. Le tracce dei lupi che correvano e saltavano pazzi di gioia, sentivano e bramavano, tra i tronchi e i muschi; e quelle timide e schive dei daini, e poi ancora le poesie recitate dai corvi rauchi, nel tempo in cui giocavano con sassi e noci, prima che volassero a Isengard.
Ricordavo e desideravo, a quel tempo. Allora, ogni inverno, partivo.
Avevo pendii da scendere e risalire, nuvole da guardare ridendo forte mentre correvano in gara con le aquile libere e forti. Accarezzavo i tronchi delle greggi, sentivo il muschio morbido avvolgermi, discorrevo con le caverne profonde, con la terra bagnata e silenziosa, con il cielo infinito e mutevole.
Crescevo, negli anni senza numero e date. Crescevo, parlavo e ascoltavo, vegliavo la tenerezza e la saggezza del mondo racchiuso nell’immensità della mia foresta.
Avevo occhi profondi, pieni di ieri e di oggi, avevo labbra coriacee capaci di sussurri e di canti. Avevo piedi nodosi che sentivano le correnti invisibili che serpeggiano sotto il terreno e le talpe e i formicai; avevo braccia che volevano toccare altri esseri.
Era bello, allora, essere chi ero.
I venti, le piogge, i giorni di sole caldo e poi le notti: ah, le notti, quanto erano belle. Le luci lontane e la luna rotonda che sorrideva scomparendo per poi tornare, il tremolio delle stelle e le voci sommesse tra i rami.
Le volpi. Le lucciole nelle estati tiepide, quando aprivo un occhio dal sonno e il prato era cosparso di piccoli fiori e di balli: ora c’è la lucina, ora no. Ora è tornata, ma un po’ più in là, ora si è spenta di nuovo. Erano migliaia, le lucette danzanti nelle notti profumate d’estate, quando aprivo un occhio dal sonno e mi riaddormentavo, felice.
Poi, lentamente, come la corteccia che si appoggia sulla corteccia, e poi ancora un altro strato, sempre più duro e rigido. Tempo dopo tempo, inverno dopo estate, mi sono chiesto “perché?”.
Perché andare, quando avevo già visto? Perché cambiare, quando ero già cambiato quanto si può? – ho pensato -.
Le mie greggi non si muoveranno di certo.
Ho visto i lupi e le aquile, e ho capito che per quanto lo vogliano, si cerchino, lo desiderino, non si incontreranno. Voi non sapete, ma aquile e lupi sono fatti per stare insieme, esseri liberi che amano correre volando, che parlano di spazi e di luoghi e di mondi che nessuno riesce a immaginare, che solo loro sanno e conoscono. Aquile e lupi hanno un solo destino, intrecciato. Lo sanno ma non lo comprendono ancora. Non so se lo capiranno mai.
Ho smesso di credere alle parole degli Elfi dei Boschi che mi dicevano, passando tra le foreste silenziosi e leggeri “un giorno accadrà, Finglas, quando il lupo sarà pronto per volare e l’aquila avrà imparato a corrergli al fianco. Tu sii certo, accadrà.”
Io ho provato a parlare con il lupo e con l’aquila, mi hanno detto “Lo so, ma…”
E se provo a parlare, e davanti trovo cataste scomposte di ma… allora, perché dire? Perché sprecare linfa e consumare vita ed energia, se i lupi si rassegnano e le aquile scuotono il capo, tristi, e aspettano invano, se le mie greggi non si muovono di certo e la foresta rimane lì in ogni caso, che io la conservi o meno? Perché muoversi se, tempo dopo tempo, tutto ciò che potevo vedere l’ho visto?
Cosa interessa ai ruscelli impazienti, ai leprotti veloci e alle ghiandaie, ai gufi dagli occhi grandi e neri e alle erbe, agli scoiattoli e agli scarabei, agli alberi fermi? Non quello che ho da dire, non quello che ho imparato nel passare lento e scandito delle stagioni e dei sogni delle lunghe estati calde. Non quello che sento, che scorre nelle mie vene, non quello che il cosmo sussurra dall’inizio del tempo.
Ci ho pensato tanto, mi sono fatto domande, ho provato: dapprima ho iniziato a vagare senza parlare, senza stupirmi, senza sfiorare più nulla.
A nessuno interessa ciò che bisogna ascoltare. A nessuno interessano la parola e la volontà e il destino. A nessuno interessa un pastore di alberi, pianta tra le piante, ricoperto di muschio.
Tanto vale tacere. L’ho detto a Fangorn, che non vale la pena. Tanto vale fermarsi, non dire e non fare: non c’è nulla a cui badare, c’è solo il tempo che passa e la scorza che diventa più spessa, che occupa lo spazio che una volta era del cuore. C’è la rassegnazione serena del mondo che va avanti sempre uguale a se stesso, senza cambiare. C’è la bellezza del vuoto, del sentire sempre più flebile senza curarsi, rassicurante è sapere che, dritto o storto, giusto o sbagliato, tutto rimarrà uguale a se stesso.
È la sublime bellezza del lasciarsi andare all’oblio. Niente rabbia, rimpianto, niente voce o poesia. Solo legna.
Cosa dico, se nessuno sa ascoltare nel profondo del pozzo limpido che alcuni chiamano anima?
Tanto vale dormire, riposare, lasciare che i piedi affondino nel terreno morbido e non ne escano più, tanto vale lasciare che l’erba mi cresca intorno, senza rumore, sempre più alta. Tanto vale stare fermi, mentre la neve inizia a cadere cantando in silenzio, e ignorare i suoi “Svegliati, è ora di andare”… prima o poi, si stancherà di sussurrare al mio orecchio, e tutto tacerà.
Potrò dormire con le labbra sigillate e gli occhi chiusi, dimenticando finalmente tutte le cose che ho appreso.
Il libro…
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Titolo: Le due torri (Il signore degli anelli), originale: The two Towers (The Lord of The Rings)
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Autore: J.R.R. Tolkien
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Editore: George Allen & Unwin
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Prima edizione: 1954
Chiara Menardo ha pubblicato La mareggiata in un barattolo per Harper Collins Italia, collana eLit, 2019
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