DiarioXY . LUSSURIA
Hobos tra West Egg e New York
In 8 Ottobre 2022 da Chiara MenardoPiù o meno a metà tragitto fra West Egg e New York l’autostrada si congiunge frettolosamente con la ferrovia e la costeggia per un quarto di miglio, quasi volesse ritirarsi da una certa landa desolata. È una valle di ceneri, un fondo irreale dove le ceneri crescono come frumento in alture e colline e giardini grotteschi; dove le ceneri prendono forma di case e comignoli e volute di fumo e, infine, con uno sforzo trascendentale, di uomini grigio-cenere che si muovono offuscati e come già sbriciolati nel pulviscolo. Ogni tanto una fila di carrelli grigi avanza adagio lungo uno sterrato invisibile, esala un cigolio spettrale e si arresta, e subito gli uomini grigio-cenere vi sciamano intorno con vanghe di piombo, sollevando una nube impenetrabile che fa da schermo alle loro oscure operazioni.
Ma sulla terra grigia e gli spasmi di polvere torva che fluttuano senza fine al di sopra, si avverte, dopo un istante, la presenza degli occhi del dottor T.J. Eckleburg. Gli occhi del dottor T.J. Eckleburg sono azzurri e giganteschi – le retine raggiungono una iarda di altezza. Non guardano un volto, bensì da un paio di enormi occhiali gialli su un naso inesistente. È evidente che qualche oculista burlone li ha messi lì per rimpinguare il suo studio di Queens e poi è sprofondato lui stesso nella cecità eterna oppure se li è scordati e si è trasferito altrove. Ma i suoi occhi, un poco offuscati da molti giorni scoloriti sotto il sole e la pioggia, continuano a meditare sopra la solenne discarica di rifiuti.
(F. S. Fitzgerald, Il Grande Gatsby, 1925)
Una nuvola di polvere, un semplice tonfo attutito, una mezza capriola. Raccogliamo il cappello e la sacca, ci scrolliamo la ghiaia di dosso e questa parte del viaggio è già andata, sta scomparendo con lo sferragliare del treno che ha rallentato per poi accelerare e raggiungere la sua destinazione. Tornerà indietro sulle stesse rotaie e, forse, saliremo di nuovo su uno dei suoi sgangherati vagoni. Oppure sarà un treno diverso, per un posto diverso, in un altro mondo di polvere e ghiaia e cortili d’erbacce. Chissà.
Ci alziamo battendo le mani sulle ginocchia, unendoci in gruppi di due, tre, di quattro giacche slabbrate e camicie cascanti. È qui che comincia la nostra ricerca: un cantiere, un campo, una fabbrica, un gruppo di case isolate. Ovunque ci sia un tetto per una notte o due. O magari quattro. E qualcosa da mangiare.
Le vanghe vanno benissimo, immersi nella polvere grigia e nei cumuli di immondizie della città laggiù in fondo. Bruciano, fili sottili che si alzano in alto e aumentano il grigio del cielo, la cappa si stende fino al confine della grande città. Si appesantisce mano a mano che il sole si alza, pallido e giallo e, come una mano impietosa, ci schiaccia addosso la polvere che si infila tra i denti, su per le narici, dentro le orecchie. Ma a noi non importa: cosa ci importa se la sera, raccolti intorno a un fuoco di sterpi, non siamo lindi e puliti ma tratteniamo sui volti le tracce di polvere, cenere e sporco che si annidano tra le rughe, nei pori, sui peli del corpo? A noi, cosa importa? Siamo tutti così, tutti uguali. Fantasmi delle ferrovie, ombre rannicchiate negli angoli bui dei vagoni merci, mani callose che stringono vanghe e martelli per alcuni giorni per poi scomparire verso altre mete, nuove destinazioni uguali alle precedenti.
Una famiglia un tempo c’è stata. Uguale e diversa, per ciascuno di noi: genitori e mogli, figli e fratelli. Tutti lasciati indietro, in un modo o nell’altro. Chi per la crisi, chi per amore dell’alcool, chi buttato fuori a pedate con i quattro stracci sparsi per il prato malconcio, chi, ancora, semplicemente una notte è sparito. Con o senza una spiegazione, con o senza biglietto, con o senza lacrime d’accompagnamento.
Le storie di ieri non sono più storie. Sono bagagli che pesano sulle spalle più della sacca con i quattro stracci, la coperta piena di pidocchi e le pentole. Le storie di ieri prima o poi vengono buttate giù da un vagone in una notte di luna, o affogate in un fiume, lasciate appoggiate al muro sbrecciato di una casa abbandonata. Le storie di ieri pesano troppo sulle nostre spalle, meglio lasciarle indietro da qualche parte, sapendo che mai nessuno le raccoglierà.
Scava la polvere, mangiala, carica il carrello che ha tanto bisogno di un poco di olio alle ruote. Spingi il carrello pieno, i muscoli tesi e la testa che brucia sotto il palmo aperto del sole che ti spinge giù, in basso, e ti appiccica la polvere addosso. Per qualche centesimo, quel tanto che basta per comprarsi due fagioli e una birra, se pagano bene.
Oh, siamo romantici, noi. Il coltello nascosto addosso, un bastone a portata di mano la notte, che non si sa mai. I denti guasti e il cielo stellato, i ripari di corsa quando comincia a piovere, i piedi che dolgono per i troppi passi, i vagoni del treno. Cantiamo, a volte, sotto la luna. Vecchie canzoni da chissà dove: Chicago, New York, Albuquerque, Dixville Notch… Voci rauche e accenti, capelli scuri o più radi, ormai grigi.
Le storie appoggiate lontano, da qualche parte. La storia di oggi già dimenticata, in un oggi continuo che si ripete senza alcun senso né fine. Camminiamo in piccoli gruppi, parliamo di rado, le informazioni essenziali: più avanti c’è un magazzino dell’esercito della salvezza; oltre l’incrocio, se cammini tre o quattro miglia, un tetto e dei campi pronti per il raccolto; al prossimo paese una puttana che non costa molto e sembra pulita… informazioni essenziali per noi fantasmi, polveri che camminano in mezzo alla polvere, braccia che reggono vanghe e poi lasciano, fantasmi accucciati negli angoli bui dei vagoni merci, che ogni tanto bisbigliano piano God Bless America, my home sweet home…
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