
DiarioXY . LUSSURIA
Nobuko
In 22 Gennaio 2022 da Chiara MenardoCome di consuetudine, quando le tre amiche si riunivano, era naturale che si lasciassero andare a conversazioni frizzantine, e quella sera Taeko era particolarmente in forma. Beveva di gusto e la sua risata era più potente del solito.
A Nobuko era stato commissionato un articolo sulla biancheria intima maschile, quindi si era lanciata in una lunga dissertazione su quanto fosse complicato fare ricerche sul campo tramite le inchieste individuali. «Io non mi sono mai, nella maniera più assoluta, interessata di biancheria maschile!», disse Suzuko in tutta franchezza. Nella mente della donna, in effetti, esistevano essenzialmente due tipologie di uomo: quello vestito di tutto punto, in giacca e cravatta, e quello vestito di niente.
Taeko sapeva che l’obiettivo di quelle riunioni era proprio parlare senza mentire o nascondere nulla. Avevano tutte e tre imparato dalle rispettive esperienze lavorative e dai loro divorzi che, nel corso di una vita, questi spazi e questi momenti di libertà erano fondamentali per andare avanti. e una saggezza del genere non poteva derivare da una banale vita in famiglia.
(Yukio Mishima, La scuola della carne, 1963)
Guanti di seta, vestito che sfiora appena il ginocchio, scollatura, calze. Una riga scura percorre il polpaccio. Reggicalze di pizzo, sotto la gonna. Due gocce di profumo dietro le orecchie, nell’incavo del gomito, alla base del collo.
Un ultimo sguardo allo specchio prima di voltarmi chiudendo la luce, la porta, il pudore dietro le spalle. È la sera dell’appuntamento con il Comitato Toshima: Taeko, Suzuko, e io.
Un locale dalle luci soffuse e una buona carta dei vini.
Guanti di seta e un calice per lasciarsi andare. Uscire. Via da casa, lavoro, pensieri, morali.
Che noia, i binari ristretti, le sponde alte del pensare comune. Nascondi, non farti vedere, non pensare, non dire.
In ordine, sempre; truccata e perfetta, pulita tu e i tuoi pensieri. Che non si sappia e si veda, quello che vuoi veramente. L’animale che hai dentro, che tutti conserviamo gelosi, nascosto in un angolo da qualche parte, tra il cervello, la pancia e le gambe, deve star buono. Rinchiuso dietro le sbarre, guai a mostrarlo. Che poi, chissà cosa dicono, pensano, immaginano, mormorano. Come se non avessero anche loro un serpente appallottolato nel ventre, che aspetta un tocco, uno soltanto per risvegliarsi e spalancare le fauci come una rosa si apre al mattino.
Cervello, pancia, ventre. Come se una donna dovesse avere i fili tagliati, i circuiti interrotti. Non ridere troppo rumorosamente, è sguaiato. Copri il sorriso se non vuoi passare per una poco di buono. Abbassa lo sguardo, parla più piano, bisbiglia, sussurra o, meglio, stai muta. La virtù passa attraverso lo stretto sentiero del silenzio, non lo sai?
Sii modesta, annuisci, arrossisci. Non provare piacere o, perlomeno, non darlo a vedere. Le poco di buono godono ad aprire le gambe. Tu sei una donna perbene, lo fai perché tuo marito è signore. Lui conta. Tu, no.
E quando me ne sono liberata, di quel marito zavorra?
Cosa vi aspettavate da me, signore e signori dei salotti perbene e delle sale da tè?
Grisaglie. E silenzio, ça va sans dire. Vestita di bianco come le vedove così ci vorrebbero. Rinchiuse in casa come monache al tempio.
Per tutta la vita, anche se ancora nel fiore degli anni. Ipocriti, stupidi. Conformisti. Sarebbe parimenti accettabile, per concessione gentile e benevola, concedere a me – e a tutte le altre che condividono la mia stessa sorte -, una vita sotterranea e discreta. Fai e non dire. mai, a nessuno. Taci, china il capo e non riderne, non ne parlare. Se proprio devi, nasconditi.
Non sia mai che si scoperchi la pentola ipocrita che tenete rinchiusa con cura, con tutte le forze. Che non si sappia che l’animale che ho dentro, annidato tra il cervello e la pancia, annidato in mezzo alle gambe, è più che mai vivo e si muove sinuoso.
E allora, che c’è da guardare? Tre donne al tavolo di un ristorante che bevono e ammiccano, e che sarà mai?
Sfilarsi un guanto afferrando con gli incisivi la punta delle dita, stringere le palpebre fissando il pianista, leccarsi lievemente le labbra, parlare di uomini bevendo del vino, ridere forte. E allora? Come la mettiamo?
Se voglio farmi un amante, un altro e poi uno ancora, decido, scelgo e procedo. Nonostante voi. Mi chiedo: quale sarebbe il problema se uscissimo per andare a cena, ridendo e toccandoci, sul tavolo e sotto? Se parlassi forte rovesciando la testa a mostrare il mio collo bianco, cosa avreste da dire? Se proclamassi è lui, il mio amante. Lo amo davvero? Non che la cosa importi granché, non a voi. Vi basti sapere che il mio tatami ne ha visti, di amplessi. E altri ancora ne vedrà.
Direste che mi comporto come una prostituta. Che, eccolo lì, il motivo per cui sono senza marito, per cui se n’è andato – come dimenticate in fretta che sono stata io a sbatterlo fuori di casa. Vi ho scandalizzato, allora, vero? Vi scandalizzo ancora, vero?
Grattando un poco sotto la patina di tradizione, tanto si sa che questi confini stanno ormai stretti anche a voi, che saltate gli steccati furtivi, quando nessuno vi vede. Codardi, smidollati senza coraggio. Gli steccati si abbattono. Non si sguscia fuori non visti, come dei ladri, per poi rientrare diligenti in galera.
E invece eccoci qui. Fuori dai recinti, per almeno una sera, a ridere forte avvolte dal profumo e dal fumo che esce dalle nostre sigarette lunghe e sottili. Lucciole avvolte in guanti di seta e tailleur che brillano rumorose al centro di un locale nel centro di Tokyo. E, se scandalo ha da essere, allora che sia. Soffio il fumo via dalle labbra e mi guardo intorno, cercando di immaginare, sotto giacche e cravatte, come siano quei corpi seduti ai tavoli. Bolsi, magri, obesi o coperti di muscoli che potrebbero guizzare sopra di me. E non arrossisco, non più, non adesso.
Stasera non ci avrete. E neppure domani. Forse, non ci avrete mai più, ma non ne sono tanto convinta.
Ubriaca, ebbra di nicotina e cognac, dopo il conto e il taxi lo so, che tornerò dentro il recinto, sgattaiolando di nuovo oltre lo steccato, fino alla prossima fuga.
Il romanzo…

Titolo: La scuola della carne | Autore: Yukio Mishima | Anno pubblicazione originale: 1963 | Pubblicazione nostra, casa editrice, collana, anno, traduzione: Feltrinelli, I narratori, Carlotta Rapisarda, 2013
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