DiarioXY . LUSSURIA
La noia e l’indovino
In 24 Dicembre 2022 da Chiara MenardoInfine venne l’anima del tebano Tiresia,
con uno scettro d’oro, e mi conobbe e disse:
«Divino Laerzìade, ingegnoso Odisseo,
perché infelice, lasciando la luce del sole,
venisti a vedere i morti e questo lugubre luogo?
Ma levati dalla fossa, ritira la spada affilata,
che beva il sangue [delle vittime sacrificali] e poi il vero ti dica».
Parlava così, e io, ritirandomi, la spada a borchie d’argento
rimisi nel fodero; lui bevve il sangue nero,
poi finalmente mi disse parole, il profeta glorioso:
«Cerchi il ritorno dolcezza di miele, splendido Odisseo,
ma faticoso lo farà un nume; non credo
che sfuggirai all’Ennosìgeo, tant’odio s’è messo nel cuore,
irato perché il figlio suo gli accecasti;
ma anche così, pur soffrendo dolori, potrete arrivare,
se vuoi frenare il tuo cuore e quello dei tuoi,
quando avvicinerai la solida nave
all’isola Trinachìa, scampato dal mare viola,
e pascolanti là troverete le vacche e le floride greggi
del Sole, che tutto vede e tutto ascolta dall’alto.
Se intatte le lascerai, se penserai al ritorno,
in Itaca, pur soffrendo dolori, potrete arrivare:
ma se le rapisci allora t’annuncio la fine
per la nave e i compagni. Quanto a te, se ti salvi,
tardi e male tornerai, perduti tutti i compagni,
su nave altrui; troverai pene in casa,
uomini tracotanti, che le ricchezze ti mangiano,
facendo la corte alla sposa divina e offrendole doni di nozze.
Ma la loro violenza punirai, ritornato.
E quando i pretendenti nel tuo palazzo avrai spento,
o con l’inganno, o apertamente col bronzo affilato,
allora parti, prendendo il maneggevole remo,
finché a genti tu arrivi che non conoscono il mare,
non mangiano cibi conditi con sale,
non sanno le navi dalle guance di minio,
né i maneggevoli remi che sono ali alle navi.
E il segno ti dirò, chiarissimo: non può sfuggirti.
Quando, incontrandoti, un altro viatore ti dica
che il ventilabro tu reggi sulla nobile spalla,
allora, in terra piantato il maneggevole remo,
offerti bei sacrifici a Poseidone sovrano
– ariete, toro e verro marito di scrofe –
torna a casa e celebra sacre ecatombi
ai numi immortali che il cielo vasto possiedono,
a tutti per ordine. Morte dal mare
ti verrà, molto dolce, a ucciderti vinto
da una serena vecchiezza. Intorno a te popoli
beati saranno. Questo con verità ti predico».
Odissea, XI, 90-137
È andato. Ho bevuto il tributo di sangue fumante e ho risposto alla domanda. Io sono sazio e stanco, l’eroe invece è andato via.
Torno alle ombre delle ombre io, cieca anima in fumo, unico veggente; io, che vago senza vedere nell’antro più scuro. Io, che tutto ho visto senza nulla vedere. Io, che vedevo vicino e lontano, l’ovvio e il nascosto. Io che, delle due viste, ne ho perduta una.
E ora, che faccio? Mi siedo su una punta di roccia e aspetto il prossimo postulante. Prima o poi arriverà. Mi siedo e non posso nemmeno guardare i volti smunti degli altri che con me affollano il regno dell’Ombra.
Ho di nuovo fame. Ho sete. Ho sonno. Ma qui non si mangia, non si beve, non si dorme. Qui non ci dovrebbero essere né fame, né sete, né tantomeno il bisogno di appoggiare il capo a un giaciglio. Qui non dovrebbe esserci nulla, e invece c’è solo il tempo.
Tiresia, il cieco indovino che tante vite ha vissuto, si annoia. Eccola, la verità.
Afferrerei la veste per contare i fili della trama, si riuscisse ad afferrare qualcosa. E invece, neanche quello.
Pesterei i piedi, se servisse. Se solo i miei piedi avessero un poco di consistenza, quel tanto che basta per sollevare un granello di polvere.
Canticchio lo stesso motivo da anni, secoli, ere. Così passo il mio interminabile tempo. Ascolto i sussurri di chi è arrivato prima, durante e dopo di me, e mi annoio lo stesso.
Veloci erano i tempi in cui sentivo sotto i piedi il colore dell’erba. Forti erano i giorni in cui, ragazzo, cacciavo lepri nei boschi e tiravo i sassi nei fiumi impetuosi.
Dolci erano i tempi in cui mi acconciavo i capelli in trecce avvolte intorno al capo leggiadro, e gli uomini mi guardavano il seno.
Saggi erano i tempi in cui, nuovamente uomo, attendevo le genti e dispensavo responsi, la mia grotta colma di doni e ricompense per i vaticini.
Guardavo oltre il velo delle palpebre chiuse e vedevo, io potevo vedere. Io sapevo. Io so. Tenuto in gran conto da uomini e dei, ero.
E come sempre, come ogni giudice in una divina contesa, ho risposto agli dei, sapendo che qualcuno sarebbe stato scontento. Non si può dire la verità e non pagare pegno. Zeus mi ha tolto il colore dagli occhi. Mi ha lasciato lo sguardo lontano su ciò che sarà, non permettendomi più di guardare un filo d’erba, un essere umano, un’arancia.
Uomo, poi donna, poi di nuovo uomo, e mi hanno chiesto chi godesse di più. Ho risposto, e da quel momento non ho visto più.
Tanto, se avessi mentito, sarei stato punito ugualmente. Se avessi risposto in maniera diversa, non avrei certo scampato il fio. Sarebbe stato diverso, forse. Non so. Vedo quel che sarà, non ciò che avrebbe potuto essere, io.
E poi ho lasciato il mondo dei vivi e sono arrivato qui. Come tanti. Come tutti, prima di me; durante e dopo di me, questo è il luogo per incontrarci senza incrociarci mai, senza che importi.
E adesso? Adesso sto accucciato su una roccia, credo, e aspetto che passi l’eternità. Senza nessuno che venga ogni giorno con un capretto, del vino, del pane, una giovane ancella, due uova, a chiedere del raccolto e del mare, delle giumente e delle guerre.
Bei tempi, quelli.
Mi crogiolerò per secoli nel ricordo esaltante dell’arrivo di Odisseo. Perché tanto non succederà niente di niente di niente per un bel po’. Non è che scendono in tanti, quaggiù. Praticamente, non scende nessuno.
Ci annoiamo. Mi annoio da morire.
Un’eternità di polvere e buio, che nemmeno posso vedere. Cieco ero, cieco rimango. Nulla è giusto, a parte la noia che avvolge ciascuno di noi che vaghiamo senza sollevare neanche un granello di polvere, senza far ombra, senza… senza. E basta.
Con tutto quello che ho visto, non doveva succedere, ecco. Non a me, a Tiresia, l’indovino più famoso del suo tempo, l’essere dalle mille vite, colui che ha conosciuto i piaceri di entrambi i sessi e ha goduto – oh, se ho goduto – la gioia di essere tutto ciò che si poteva. Il saggio, l’indovino, il rispettato giudice delle liti divine.
È stato bello, e poi sono morto. Ed è iniziata la noia infinita, quella senza rimedio e ritorno, senza giorno né notte, senza nulla da vedere o da fare. E non meritavo il destino di ognuno, con quel che sono stato e che ho visto e provato. Meritavo di più, di meglio. Non questo infinito nulla rotto da un unico eroe riuscito a penetrare le nebbie dei regni offrendomi sangue fumante in cambio di un ultimo responso. E me ne ricorderò, cullandomi nella memoria di quel sapore ferroso e dolce, spezzando le catene del momento infinito di cui continuerò a lamentarmi come un bambino in preda ai capricci, per il resto dell’eternità.
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