
DiarioXY . LUSSURIA
Chiamami fungo
In 21 Aprile 2017 da Chiara MenardoDunque: dopo tanto penare, dopo tanto soffrire, dopo tutti i rimescolii, i masticamenti, gli zampettamenti sparsi, i tramestii finalmente ero in pace, tranquillo.
Scoperto e svestito, libero da tutto quello che mi soffocava, copriva, nascondeva fin da quando sono venuto al mondo: una corazza spessa di carne, tendini e muscoli, strati di grasso e pelle e peli, finalmente (beh, sì, insomma, mica è stato piacevole, tutto il processo) stavo, senza alcuna pretesa.
Da quando è successo il fatto, qui è passato di tutto: cani randagi, procioni, corvi, mosche, scarafaggi, bestiacce di cui neanche conosco il nome. Ciascuno di loro si è portato via un pezzo di me, piccolo o grande che fosse. Se lo sono preso senza chiedere permesso, come in una tavola calda a self service in cui sono finiti i vassoi: ehi, ragazzi, c’è un arrosto intero laggiù! Vai e strappa, prendi quanto ne vuoi, è un grosso all you can eat, ed è gratis! Fiesta!
La mia storia, da un certo punto in poi, è esattamente uguale a miliardi di altre storie, uguale alla storia di qualsiasi essere vivente abbia calpestato la terra. Tutto sommato, anche prima del poi di quel punto in poi.
Il tonfo, la caduta e il colpo.
Zot.
Quell’attimo in cui tutto si ferma e tutto comincia. Che cosa ho provato? Niente di niente. Solo, forse, una sensazione di stasi, di vuoto, non scorreva più nulla, dentro era tutto immobile.
C’è voluto un po’ perché arrivassero a me. Ore, giorni, mesi? Che importa il tempo?
Naaa, non lo dico perché all’improvviso mi sono scoperto filosofo.
Lo dico solo perché, se ci si pensa per bene, non ho mai avuto una consapevolezza piena del tempo che passa. L’io che sono ora non è l’io che ero quando sono nato. Le mie cellule sono cambiate miliardi di volte. Di originale c’è solo la forma.
C’era, solo la forma. Ora sono un po’ rosicchiato, sbianchito, verdognolo, vaso per muffe e piedistallo per foglie e terriccio. Toh, da qualche parte è spuntato un fungo: carino, vero? Bianchiccio e profumato di muschio.
Non ho olfatto, che voglio saperne? Non ho occhi, né orecchie, a me cosa importa?
Sto qui, sotto uno strato di terra e di frasche e sto. Finalmente. Non mi muovo se non c’è qualcuno che mi sposta, se non c’è una piccola frana, o una pioggia forte abbastanza da lavare via il terriccio da sotto e farmi scivolare da qualche parte, più in là. Di cosa? Non so, boh, importa poi così tanto? A me, no.
Mi sento un po’ solo. Gli altri, credo siano sparsi qua intorno, ma ormai non ne sfioro più nessuno. Eravamo 206: una bella combriccola, tra lunghi, larghi, corti o piccoli piccoli. Tutti ordinati e sincronizzati, facevamo un lavorone. Poi un colpo, il riposo e la stasi. Ah, che pace, che tranquillità, che sollievo non doversi più alzare e sostenere tutti quei pesi, e su e giù, e muoviti e sta fermo, seduto! In piedi! Di qua! Di là!
Così, per anni, giorno dopo giorno.
Ora godiamoci il vuoto e il silenzio, il solletico dei dentini dei topi che rosicchiano e ci dissolvono lentamente nelle loro viscere, mi dico. Abbiamo fatto tutto quello che dovevamo, adesso è arrivato il momento del basta, del niente.
Io, personalmente, non mi lamento. Sto, vegeto, e non vorrei fare altro che questo: è così rilassante.
Quindi, adesso, gradirei che la smettessi. Rimettimi dove stavo, per cortesia. Toglimi quelle manacce di dosso.
Allora, mi ascolti? Vorrei davvero, con tutto il cuore, che mi levassi da questo sacchetto di plastica, non mi piace. Voglio il mio fungo, eravamo felici io e il mio fungo, e tu lo hai ucciso!
Uno non può stare tranquillo a riposare in un bosco che arrivi tu, e i cani, e altra gente, ti porti rumori molesti e fastidio, gli scalpiccii e le grida, e poi hai iniziato a setacciare, smuovere e scavare, a darci dentro di cazzuola e spazzolini da denti.
Non voglio essere portato via, lavato, bollito, affettato e messo sotto un microscopio, porca miseria, lo capisci?
Voglio tornare sotto le mie foglie, ti prego! Questo coso su cui mi hai appoggiato è freddo ed è duro, non mi piace per niente.
Toh, guarda chi c’è: ciao, da quanto tempo! Anche a te hanno levato un fungo di dosso così in malo modo, senza rispetto? Ah, no? Già, tu eri sotto qualche spanna di terra, come avresti potuto avere il tuo fungo? E com’è andata? Bene, sì? Oh, sono proprio contento, mi siete mancati. Ci siamo tutti? Come sarebbe, non hanno trovato due falangette, sei denti e mezza mandibola? Nooo, che dispiacere.
Secondo te, ora che succede? Ci riporteranno a casa? Devo ritrovare il mio fungo, chissà come sta.
No, mi oppongo. Nel pentolone non ci vado. Nemmeno sotto la sega, fa un rumore antipatico. Bzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz…
Ficcaci le tue, di dita, sotto quel coso che fa bzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz! E lascia stare i miei amici, fratelli, parenti, insomma. Lascia in pace anche loro! Levati di torno!
Lasciaci. In. Pace.
Quello che è stato, è stato. Frega niente che ti chiami dottoressa comesichiama, frega proprio niente di niente.
Hai la voce antipatica: “Microfrattura in corrispondenza della C6”.
Io non mi chiamo C6, non ho un nome e, se mai ne avessi uno, vorrei chiamarmi come il mio amico. Fungo.
Chiamami Fungo.
Microfrattura in corrispondenza di Fungo, non è più carino, intimo, amichevole? È simpatico, strappa un sorriso tenero. Altro che C6.
Chiamati tu C6, se proprio ti piace. È impersonale.
Neanche mi ricordo come mi hanno micro fratturato, che vuoi che importi?
Lo fai per i parenti, dici? Lo fai per ristabilire la Verità?
Perché ho bisogno di avere un nome? Io ce l’ho un nome, ho detto: Fungo!
I parenti di chi, di che? I miei parenti sono lì, su quel tavolone d’acciaio freddo e liscio e si lamentano come mi sto lagnando io mentre tu li lessi, li seghi e li polverizzi. Ti pare comportamento da persona a modo? Ti sembra bello, quello che hai fatto, tirarci via di forza da dove finalmente potevamo star fermi invece di faticare in continuazione?
Vuoi che importi a qualcuno, della Verità? Lascia che te lo dica, a me non interessa e, se non interessa a me, a noi che siamo qui, ora, stesi su un tavolaccio scomodo, annaffiati di acqua fredda, allora non è importante, boriosa!
Già che ci siamo: puoi almeno farci il bagno nell’acqua tiepida, dopo tutta la pioggia gelata che ci siamo presi, sarebbe un gesto gentile. O è chiedere troppo a Sua Signoria?
Prima non è stato bello, e neanche tanto il durante, se ci ripenso. Dopo tutto quello che avevamo passato, finalmente stavamo bene, davvero. Eravamo in pace, finché non sei arrivata tu, con tutta quella gente e il setaccio e la cazzuola e i sacchetti di plastica.
Mi hai portato via Fungo!
Ed io mi lamento, ecco. Mi lamento perché non posso far nient’altro, perché non ho voce né orecchie né bocca (stavano da un’altra parte, e adesso non ci sono nemmeno più, poveretti. Mangiati, dissolti, marciti. Magari qualcuno di loro è diventato Fungo. Ecco perché mi sembrava di conoscerlo da sempre, ma guarda te com’è piccolo il mondo!), mentre tu ti riempi la bocca con la tua Giustizia. Bello, un bel pretesto per venire a rompere le scatole a noi, povere vecchie ossa mangiate e digerite, che non abbiamo chiesto né di nascere, né di morire, né di finire in un bosco.
Ma è successo. Ora, per cortesia, Dottoressa, lasciaci vegetare in pace, concludere il nostro ciclo – che poi sarà anche il tuo.
Riportaci nel bosco, ricoprici di foglie, cerca Fungo e rimettilo lì, dove stava, vicino a me. Non facevamo grandi discorsi, di cosa vuoi parlare con un fungo? Ma era bello lo stesso.
Lascia stare la Verità, i parenti e compagnia cantante. Siediti sotto la quercia, accanto a me e a Fungo e ascolta, se vuoi. Ascolta la musica bella del nulla. Poi tornatene a casa.
E salutami la tua C6.
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Titolo: Carne e ossa (originale: Break no bones)
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Autrice: Kathy Reichs
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Editore: Rizzoli, Milano, 2006 (originale: William Heinemann, Londra, 2006)
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