
Le storie superbe . SUPERBIA
Death on two legs
In 10 Luglio 2016 da Redazione Seven BlogIl racconto secondo classificato di StorieSuperbe – L’Ira
di Chiara Menardo
Guardo da lontano la corte dei miracoli in adorazione della dea dal cuore arido e gli artigli meschini.
Lei è il mio peccato capitale, lo specchio distorto che mostra gli oggetti al contrario. Lei è tutto ciò che non sono.
Lei è uno spreco così manifesto di sorte che quasi mi viene voglia di trasformarmi in Erinne. Aletto, Megera e Tisifone, tutte e tre insieme, serpenti al posto dei capelli e ali di pipistrello sfilacciate, un tizzone, una frusta tra le mani per porre fine a quel vuoto in maschera.
Non voglio le sue cose, non voglio la sua casa o l’ammirazione di coloro che le ronzano intorno come mosche magnificandone l’umanità: talpe cieche che scambiano per sole il riflesso della luce di una candela dallo stoppino minuscolo.
Lo stordimento del karma, quello sì vorrei raddrizzare mentre guardo le sue mani sfiorare con la stessa brama del calcolo cose e persone, e il suo occhio di vetro scuro e freddo posarsi sul mondo che si stende in venerazione ai piedi del nulla.
Trovo triste l’esibizione del prossimo come trofeo, come mercanzia pregiata in un suk di terza categoria brulicante di saltimbanchi da quattro soldi e di capre lasciate libere di vagare a rosicchiare le stoffe pretenziose e multicolori spacciate per sete cinesi.
Lei, la diva. Lei, l’ape regina nutrita dal favo più bello e perfetto, seduta al centro del palco a dispensare parole imparate a memoria da dolcetti della fortuna sbocconcellati durante le cene nei ristoranti cinesi, sulle quali riflette pensosa socchiudendo gli occhi freddi resi caldi dal trucco, prima di rotolarsele dietro le guance: caramelle ricoperte di saliva biancastra sputate su astanti adoranti. Saggezza di seconda mano del compiacimento di sé.
Oh, è molto brava a spacciare insignificanti cocci di bottiglie di tè per diamanti, lo è ancora di più a trasformare lupi maestosi in barboncini pigolanti.
“Salta!” lei dice. Ed ecco, ginocchia si piegano, sederi all’infuori, piedi si staccano da terra per poi ricadervi in un tonfo: occhi supplici in attesa di un “bravo”, di un applauso in punta di dita, con le labbra piegate in ciò che potrebbe essere un sorriso, di un biscottino lanciato in aria e afferrato tra i denti.
Bau.
“Abbaia!” comanda, con il dito puntato. E parte l’abbaio a perso, obbediente ma non compiaciuto.
“A cuccia!” sibila, fredda. Ed eccoli lì, stesi ai suoi piedi.
Appoggiata a una colonna, dietro una tenda pesante e scostata a metà dalla mia mano che stringe fino a interrompere il flusso del sangue alle dita, la osservo.
Dio, avessi il potere, con un gesto e un sussurro, di mandarla a impilare granelli di sabbia in un deserto ventoso, per l’eternità.
Se solo potessi proiettare i suoi pensieri discrasici ingigantiti sul muro, così che tutti ascoltassero le parole di attenzione gentile e nello stesso tempo vedessero il film dell’indifferenza sdegnata che le borbotta nella testa e nel cuore, come pozzo di fanghiglia grigia e infida, le bolle che salgono lente sulla superficie per esplodere, con esasperante lentezza in un verso, un ringhio, un tonfo, per poi ricominciare daccapo.
È il quadro di Dorian Gray. Un affresco di calore e di ordine celeste, impeccabile nella sua perfezione ipnotica e ammaliante. Ma non importa la tela: quella è facciata, è l’Io costruito con paziente tenacia per intrappolare e nascondere crepe, screpolature e muffe tra le ciglia folte appiccicose di mascara ad esclusivo beneficio delle prede benevole e condiscendenti, inconsapevoli di cosa si celi nel retrobottega, di come sia il vero volto di chi stringe tavolozza e pennelli tra le dita.
Ma, purtroppo per me, posso aprire la porta dell’atelier e osservare ciò che si cela dietro i colori, posso vedere la verità dell’essenza, non mi limito al quadro psicotropo: quello, su di me non ha effetto.
Io so.
Spalanco la porta, sono dentro, non vista: nel suo cuore, cervello, nella sua anima.
È piccola piccola.
Lei ritocca ossessiva l’affresco perché non si notino i guasti. Distoglie la vista dal lavoro solo per osservare compiaciuta se stessa attraverso i vetri, gli specchi, le superfici in cristallo di cui si circonda: pavimenti, pareti, soffitto, ogni angolo ne rimanda il viso magro e crepato, le mani dalle dita lunghe e voraci, lo sprezzo negli occhi, le labbra sottili e contratte risucchiate all’interno fino a farle sparire.
Vedo emozioni e sentimenti vorticare per la stanza di specchi e abbattersi su di lei, mulinelli in picchiata che, senza riuscire a sfiorarla o scalfirla, scivolano come gocce di pioggia sul finestrino di un’auto lanciata a 240 chilometri l’ora sull’autostrada.
Come scuote le mani per levarsi di dosso il fastidio di provare, sentire, di essere umana! Compassione, amore… le mani aperte e spalancate, rigide come le pale di un mulino, un movimento dei polsi, allenato e preciso: via, non ha interesse per quello che è fuori dal sé, non vuole immergersi nelle acque del fiume freddo dei cuori di chi dice di amare. Lei è fredda, non comprende il calore: dissimula.
È brava, nella sua stanza di specchi, nei suoi mille visi riflessi che rimbalzano, infiniti e paralizzati nel cristallo dell’ego.
Così dannatamente brava a ritoccare in continuazione il suo quadro, minuscole pennellate per tenere nel giogo gli spettatori seduti sulla panca di pelle rossa della stanza del suo museo che, ormai intontiti dalla lusinga e dall’ambiguità, non riescono, non possono, non vogliono guardare oltre le crepe che, nonostante la manutenzione, percorrono in tutta la sua lunghezza quell’opera d’arte.
Chi non vorrebbe rimanere lì, estasiato e seduto in contemplazione di ciò che crede sia ineluttabile perfezione?
Ipnotizza anche me la sua perizia, la travolgente mancanza di cuore e decenza, la decadenza del nocciolo secco e inservibile, incapace di generare da sé alcun albero nuovo.
Mi fa rabbia, e schifo.
Mi scuoto sospirando dall’osservazione del capannello di persone intorno a lei: quella stupida festa è finita, per me. Attraverso la sala, non saluto nessuno, nessuno mi vede e va bene così.
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