
Le storie superbe . SUPERBIA
La duna, il deserto, il pedone.
In 20 Novembre 2022 da Chiara MenardoA ogni passo, una piccola frana silenziosa, minuscola. Gli scarponi affondano con un fruscio, il tallone scarta sul lato cedevole della collina. Una torsione, un affossamento, un rotolìo.
La resistenza della sabbia, quel giallo rossastro che si infila nei capelli, nelle orecchie, nel naso, tra i denti.
È presto ed è già così caldo, mentre il sole sale veloce oltre le dune. Fino a un’ora fa, con la notte, si avvolgeva stretto nella coperta di lana grezza, ascoltando il niente e il buio, accorgendosi appena del lieve fastidio, il prurito sommesso del tessuto sugli avambracci, le mani, le guance.
Cammina da ore. Altre, infinite lo attendono ancora, su e giù, e poi ancora su, lungo le colline di sabbia sottile. Davanti a lui, l’uomo avvolto nell’abito lungo e bianco si muove veloce, più veloce di lui. A volte, si volta a guardarlo, per controllare che non si sia perduto tra una discesa ed un’altra.
La borraccia al suo fianco pesa, ma sa di non poter abusare dell’acqua già calda, nonostante la sete. Il tè profumato che ha bevuto prima di incamminarsi è già dimenticato, evaporato in un attimo appena il sole si è affacciato sulla soglia del deserto.
“Ma quanto diavolo manca, ancora?” ansima, sussurrando. Non avrebbe voluto farsi sentire, ma non c’è rumore di auto, né versi di uccello, e nemmeno un poco di vento a coprire la voce. L’uomo vestito di bianco si ferma di colpo e si volta a guardarlo. I suoi occhi neri, tutto quello che riesce a vedere del viso coperto da una lunga striscia di tela, lo prendono in giro. “Il tempo che ci vuole, man. Nel deserto il tempo non conta: contano i passi. Arriveremo quando arriveremo.” Poi, voltatosi, riprende a salire di sbieco sul fianco morbido della duna di sabbia.
“Grazie al cazzo!”, pensa. Si guarda bene dal dirlo, però. Non vuole che l’altro scorga il disagio, la sete, la stanchezza che già gli stringe i polpacci. Non vuole farsi deridere un’altra volta dall’uomo incappucciato nel turbante. Gli ricorda un pedone degli scacchi con le braccia, con il suo caffetano lungo fino ai piedi e il turbante avvolto intorno alla testa e al viso. Non gli piace. Dal primo momento che si sono incontrati, a pelle, non gli è piaciuto. È secco e scuro, di poche parole, brusco e deferente. Troppo deferente, troppo brusco, troppo servile a momenti e in altri quasi untuoso nella sua ansia di compiacerlo. Ma questo passa il convento, gli tocca seguirlo senza fiatare per arrivare alla fine del viaggio. Gli tocca fidarsi, e a lui non piace. Non è abituato, lui. Sempre guardarsi alle spalle, si ripete da quando ha memoria. Per questo viaggia da solo, vive da solo, si diverte da solo. Per questo si trova qui, nel deserto, che arranca su e giù per le dune, con la sabbia che entra in ogni orifizio, dalle narici fino al buco del culo. Per questo, perché è solo. E arido, come il deserto.
Una duna, l’ennesima. Tutte lo stesso, si somigliano troppo. Potrebbe girare intorno alla stessa, stupida duna da ore, su e giù come un cretino impanato e non se ne accorgerebbe nemmeno. E il sole continua a salire, il caldo ad aumentare e non ha neanche più una goccia di sudore nel corpo da tirare fuori per rinfrescarsi. La borraccia continua a pesare, lui continua a non bere. Cammina, un passo poi l’altro e poi ancora uno.
Il pedone velato si gira e lo fissa. Allunga una mano verso l’ennesima duna. Una fila di piccole macchie scure si muovono lontano, laggiù, all’orizzonte, “Saluta la fata Morgana”, gli dice e poi ride dandogli le spalle e ricominciando a salire.
“Che ti ridi?”, mormora. Dalla gola riarsa non esce alcun suono. Le corde vocali si saranno seccate, come salami stagionati. Al solo pensiero la sete aumenta, ma il pedone velato gli ha detto di risparmiare l’acqua, e lui non ha intenzione di cedere.
Il sole è grande e rotondo, il cielo troppo dannatamente azzurro, la sabbia sempre più alta e ogni passo è una fatica, troppa. Come se dovesse alzare due blocchi di cemento con i soli piedi. Sta sprofondando sempre più giù, la sabbia gli arriva alle ginocchia. Alza una mano, sta tremando. Si accorge all’ultimo che è caduto di faccia sulla sabbia sottile. Ecco, è finita. Diventerà uno scheletro bianco, lucidato dal vento e dalla calura. Le bestie lo rosicchieranno, useranno la sua gabbia toracica come una tana. Lo sapeva che sarebbe morto così, da solo. Non immaginava di passare a miglior vita leccando la sabbia, ma tanto che importa?
Dei passi, una mano che lo tira su, dell’acqua gli bagna la testa, il viso, le labbra. La borraccia piena e una voce al telefono: “Ehi, ciao. Niente, non ha resistito neanche tre quarti d’ora. Ti mando la posizione, vieni a prenderci, vah. Turisti del cazzo…”
Mentre riapre gli occhi, che gli sembrano secchi come chicchi d’uva passa, il pedone velato si tira giù la sciarpa che gli copre il viso. Sogghigna. “Certo che siete ben strani, voialtri. Spendete un casino di soldi per una notte e mezza giornata in solitaria nel deserto, e schiattate così.” Adesso ride di gusto. “Non sono neanche le nove, dovevamo rientrare per l’una. Mi spiace rovinare il tuo trip da agente segreto solo e senza paura. Ieri sera borbottavi, ti raccontavi un sacco di favole. Sei divertente, man.”
Attaccato alla borraccia come un bambino al seno della madre, l’uomo chiude gli occhi. Dio, che vergogna. Nemmeno ventiquattr’ore di sogno innocente e ben pagato – un gioco di ruolo per scappare dalla sua vita di verduraio di periferia ed essere almeno una volta una spia solitaria, la vita che ha fantasticato per sé da quando era ragazzino – gli è concesso. Porca troia.
“Comunque – continua il pedone con le braccia, facendosi serio -, mi paghi l’intera escursione. Dai, tra poco arriva la jeep, ti riporto da tua moglie e i bambini al resort. A quest’ora, dovrebbero essere in piscina.”
(ADV)
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