Le storie superbe . SUPERBIA
Venti secondi
In 13 Marzo 2016 da Francesca ChiarelloNon le andava di starci troppo a pensare, eppure non poteva farne a meno. Si era seduta sul davanzale a fumare la terza sigaretta di fila e a guardare la strada e le macchine che stavano passando sotto di lei. Ne sentiva distintamente il rumore delle ruote, il fruscio che provocavano al contatto con la pioggia che batteva sull’asfalto. Gli occhi persi, un’altra boccata. Gli occhi fissi che avevano quella luce che avrebbe fatto scappare chiunque, una lacrima, un po’ di pioggia; quella nasconde tutto. Nasconde tutto, anche il dolore. Anche il cuore. Anche quelli spezzati, soprattutto quelli. Nasconde il rancore, la rabbia. Nasconde, e basta.
Nonostante questo non era la notte giusta per mettere tutti i ricordi in un angolo; aveva bisogno di lasciarli andare, liberarli dalla gabbia dei sentimenti. Tuttavia era lei la prima ad avere bisogno di quella libertà. Privilegiata o meno.
Se li lascio andare, forse…
Forse non sarebbe più stata arrabbiata con il mondo intero per come le circostanze continuavano a prenderla in giro. Perché era normale, dopo quattro mesi incominciare a sentire la mancanza di chi non ti ha mai dato quelle certezze che volevi, quel braccio intorno alla vita che ti aiutasse a camminare appoggiandoti finalmente a qualcuno senza sentirti in difetto. Perché era normale farsi domande sul senso dei rapporti: da quelli durati un anno, a quelli che duravano da sedici e che non erano riusciti ad arrivare ai diciassette.
Le mani tremavano e mentre lasciava cadere il mozzicone mezzo spento, guardava quanto ci metteva a mescolarsi con le pozzanghere, contando i secondi. Le gambe ciondolavano e i piedi si muovevano seguendo una musica che le arrivava da dentro e nasceva da un battito. Uno, due, tre, quattro… Venti secondi eterni, nessun rumore.
Allora si accese la quarta, tanto che cambiava? Lui non sarebbe mai tornato indietro dopo vent’anni di assenze, non si erano nemmeno degnati di dirle che stava male e lei non sarebbe certo corsa al capezzale di chi quando avrebbe dovuto darle una carezza le aveva dato uno schiaffo. Però poi pensava alle conseguenze, al karma, a chi a restare faceva fatica e la rabbia le faceva implodere il cervello. Perché si resta, cazzo. A costo di far fatica, a costo di sputar sangue, a costo di perdere sé stessi. Perché per un figlio si fa.
Se mi lasciassi andare un po’ di più, forse…
Forse sarebbe riuscita a vedere le cose da altri punti di vista, diversi dal suo, un po’ meno estremi. Forse le mancava quell’apertura mentale delle persone veramente intelligenti.
Una boccata, due lacrime, tre respiri. Il fumo esce dal naso e per un attimo si sente come se potesse ancora respirare. Perché doveva essere così difficile staccarsi da un luogo o da un’idea? Conosceva persone che hanno fatto dei viaggi il loro lavoro, dei continui trasferimenti un vanto e le parlavano sempre di quanto fosse bello non avere terra ferma. Lei invece mentre osservava le macchine non faceva altro che pensare che doveva trovare un modo per non salirci e per fermarsi. A lei la terra ferma piaceva, le piaceva viaggiare stando immobile, viaggiare con la consapevolezza di poter tornare. Odiava l’idea di lasciare l’unico posto che l’aveva cresciuta veramente, dove nulla era morto e tutto si muoveva. Dove non veniva associata a nessuno se non a lei.
Tuttavia no, lei non era fatta per lasciarsi andare, non così tanto. Avrebbe volentieri riavvolto il nastro per arrivare a tagliare due o tre scelte sbagliate, per incollarne cinque o sei pessime. Se si deve sbagliare lo si deve fare bene; non si sbaglia mai a metà, se no che sbaglio è? Ci vuole coraggio per fare una cazzata e codardia per fermarsi – per fermare tutto anche quando si sta bene. C’è sempre di mezzo la rabbia, quando si riesce a cadere in piedi.
Altri venti secondi, un sospiro inascoltato e i capelli lunghi ormai fradici. Forse avrebbe dovuto lasciarsi sbagliare anche giorni prima; uno sbaglio piacevole, da toccare il cielo con un dito per poi sprofondare tre metri sotto terra il giorno dopo, quando nessuno dei due avrebbe saputo da che parte guardare – rivestendosi di corsa, scusandosi per un impegno improbabile quanto improvviso. Per lo meno ne sarebbe valsa la pena, per lo meno avrebbe veramente avuto una scusa per chiamare sbaglio ciò che alla fine… C’è che a volte si farebbe meglio ad avere un po’ più di coraggio, le cose possono sempre cambiare e i tagli diventare cicatrici. Il caffè non sempre deve essere amaro, siamo noi a scegliere come berlo. E se si ha il coraggio di berlo zuccherato, ancora meglio.
A volte ci vogliono molto meno di venti secondi per scegliere. Meno di dieci per parlare. Meno di cinque per fermare un’implosione.
Si alzò in piedi, il davanzale non sembrava più un posto così tanto sicuro come prima. Vacillò un attimo e allargò le braccia. La libertà di essere instabile, ecco cosa le era sempre mancato. Lasciò andare i pugni che teneva stretti, rilassò le spalle sbilanciandosi e perdendo il baricentro. Inspirò la pioggia, per espirare catrame. Per essere pronta il giorno dopo a respirare solo sole, perché tremare va bene. Ma solo se lo si fa per felicità.
Quattro gocce di pioggia, un sorriso tirato, la promessa di essere migliore e un passo indietro. Pensarci non le andava più.
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