IRA . Lettere dall'Ira
Compagni di viaggio
In 16 Giugno 2018 da Chiara MenardoTu.
Sì, tu che stai guardando dal salotto di casa, seduto a tavola all’ora di cena. Proprio tu. Ho una domanda per te.
Tu ci hai mai provato a pensare cosa si vive, quando si è lì?
No?
Chiudi gli occhi un secondo, che ti ci porto, lì sopra, in un giorno o una notte qualsiasi di un giorno qualsiasi, al mare.
È ora, prendi i tuoi quattro stracci e mettiti in fila. Non guardarli in faccia, osservati i piedi e non fiatare. Cammina.
Gli scogli graffiano, le voci urlano di muoversi. Sono feroci, arrivano colpi con i bastoni e i calci di fucile. Ti prendono di striscio o in pieno, tu ti muovi come una pecora in mezzo ad altre pecore verso la porta del macello. Le onde ti arrivano alle caviglie, poi al polpaccio, poi alla vita e all’improvviso due braccia che non hai mai visto prima ti tirano su, di colpo. Uno strappo, lo strattone, ti fanno strisciare con la pancia sul bordo e ti buttano dentro. Uno dopo l’altro, schiacciati, siamo sempre di più. Trovi un posto, ti siedi, ci sono sconosciuti dappertutto che spingono e tirano e cercano di mandare te, di sotto: lì, dove c’è il motore, dentro la botola.
Lì no, lì nemmeno una bestia vorrebbe andarci, il rumore è forte e non smette mai THUMTHUMTHUMTHUMTHUMTHUMTHUMTHUMTHUMTHUM e poi è chiuso, non c’è tanta aria che passa, e c’è puzza di nafta, oleosa, nauseante che ti fa venire da vomitare a ogni respiro e si mischia alla puzza degli altri e a tutto quello che esce dai corpi immobili e pressati come in un torchio di carni che spingono altre carni e dopo un po’ non riesci più a respirare.
Ora che hai visto cosa c’è sotto di noi, siediti. Attento alle gambe, alle braccia, che non occupino troppo spazio. Attento alla borsa con le tue quattro cose, i documenti, due soldi, tutto quello che ti resta e che sei. Siediti, ho detto!
Lo senti, lo strato d’acqua sottile sul fondo? Quello ti bagna i vestiti e le scarpe e tu resti così, con il culo e i piedi in ammollo che si raggrinziscono e diventano prima freschi, poi freddi, poi ancora più freddi e la pelle si cuoce dentro le scarpe e comincia a dare fastidio e a bruciare. Dopo solo qualche ora, fa male, e fa freddo, il dolore sale su per i polpacci e hai sempre il sedere bagnato ma non ci badi più. Perché hai freddo. E hai sete. E hai i crampi ma non ti puoi muovere perché sei seduto in un angolo piccolo e stretto, un fazzoletto di assi ricoperte di plastica e ascolti al sinfonia di conati di vomito, colpi di tosse, lamenti, canti, preghiere, bestemmie, chiacchiere di chi tenta di dimenticare la paura parlando di quello che si è lasciato alle spalle.
Ci sono quelli seduti sul bordo: loro, a differenza di te, si beccano tutti gli schizzi e le onde e hanno la testa, la maglia e anche le braghe bagnate, ma almeno respirano aria pulita che sa di sale e di vento e non di denti marci, di ascelle sudate, di piscio e di vomito secco.
Invece noi siamo nel mezzo, con gomiti e ginocchia sconosciute piantate nei fianchi, nelle gambe, in faccia, e appena provi ad allungare le gambe, quello davanti a te si volta e ti insulta, ti assesta uno schiaffo forte sul polpaccio, così ti ritiri e ritorni a rattrappirti nei tuoi pochi centimetri. Dopo un po’ ti vengono i crampi e non puoi fare niente se non massaggiare restando fermo, senza muoverti troppo per non dare fastidio, e a tua volta ti giri e prendi a ceffoni la gamba, il piede, la testa di un qualcuno qualunque che prova ad allungarsi per far scorrere il sangue dentro le vene, e gli gridi di stare fermo, di fare attenzione, di guardare quello che fa, ma come può guardare quando ormai è diventato buio? E come puoi farlo tu?
Intanto è freddo, dondola tutto e non vedi niente, solo il cielo nero lassù, in alto, da qualche parte, e le luci lontane degli aerei che vanno e sai che lì dentro c’è gente seduta comoda nelle poltrone che forse beve succo di frutta e mangia biscotti. E tu, invece, no.
Tu hai la bottiglietta dell’acqua ormai quasi vuota e hai sete, hai fame, hai la nausea ma non puoi vomitare perché sei in mezzo a questo carro bestiame pieno di bipedi scuri, persi tra le onde che non si fermano mai. Mai.
Non parlare, non ti lagnare, stai zitto, stai fermo. C’è l’uomo alto, là, in fondo, con il tubo di gomma in mano e la pistola infilata nella cintura, quello che ha preso uno e non sai perché, ma lo ha buttato in acqua e lo ha lasciato andare giù, a fondo, a far compagnia a tutti quegli altri, buttati in acqua prima di lui. Forse ha detto qualcosa che non gli è piaciuto, forse non gli ha pagato per intero il biglietto, forse era svenuto… sai solo che non era morto perché lo hai sentito gridare e quel grido si allontanava, nel buio.
Poi, non ha urlato più, ed è sceso il silenzio, solo il rumore delle onde contro la barca, la nave bucata dal tempo, il gommone sbilenco, il guscio di nocciolina che ci deve portare laggiù, dall’altra parte del mare a provare, a vedere se si riesce, in qualche modo, a vivere ancora una volta una vita che sia degna di chiamarsi così.
Senti solo il rumore delle onde contro la barca, il motore che arranca e i lamenti, sempre più flebili, mentre scorre la notte, e poi un altro rumore che si avvicina. Un motoscafo e il tizio che accende un faro e segnala ehi, sono qui. E tu pensi: sì, sono salvo, qualcuno mi tirerà fuori da questa scatola di tonno a motore, da questo guscio di arachide sperso nel buio, e invece no, perché il tizio con il tubo di gomma e la pistola infilata nella cintura con un salto va sul motoscafo e tu no, tu resti fermo, accovacciato in questo posto freddo dove non c’è nulla.
Il motoscafo va via. Il motore della bagnarola si ferma. Rimangono le onde, e qualche grido di aiuto, sempre più timido, sempre più spento. Non resta più niente, se non una luce che qualcuno vede e allora…
Allora siamo tutti in piedi, la vedi la luce, compagno di viaggio? La vedi, riesci a vederla? Alza le braccia, tira fuori la voce secca e grida aiuto, con tutto il fiato che hai. Salta, fatti vedere, fai qualcosa, forza. Anche se il guscio di arachide ondeggia nella luce precaria dell’alba, tu muovi le braccia più in alto, grida più forte, fatti vedere e sei salvo.
Sei salvo.
Il guscio d’uovo si muove seguendo le onde del mare e l’onda di braccia, di piedi, di corpi che si spostano verso la fiancata per farsi vedere da quella luce là in fondo. Ondeggia. Una volta, due, tre, e spostatevi, cazzo! Non tutti qui, non tutti insieme, non da questa parte!
Ma è tardi. Non sai nemmeno come sia successo ma ora sei dentro il mare, non hai il salvagente, hai i vestiti zuppi di acqua che pesano, non hai dormito, sei stanco e il mare è freddo, l’acqua cattiva e salata ti riempie il naso e la bocca e tu tieni ancora alte le braccia e scalci più forte che puoi per restare su e respirare mentre guardi la luce lontana che arriverà e ti tirerà su, con un salvagente arancione e ci saranno coperte, acqua, un panino e qualcosa di caldo.
Aspetti e ti muovi, ti alzi e ti abbassi seguendo le onde, sempre più pesante, sempre più stanco.
Finché non ce la fai più. Ti arrendi. Hai combattuto tutta la vita e ora ti arrendi, ora basta.
Fa un male tremendo morire annegati: lo sapevi che è terribile morire così, compagno di viaggio che stai guardando in televisione le immagini una sagoma galleggiare tra le onde del tuo mare pulito e azzurro, ripresa dall’alto di un elicottero?
Be’, sappi che stai guardando me.
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