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Bridgerton e tutti i mondi possibili
In 4 Gennaio 2021 da Debora BorgognoniAnno 1813, regno di Giorgio III. Re Giorgio è affetto da demenza; la sua consorte, la regina Charlotte, governa de facto il Regno Unito. La Storia è stata rispettata, fin qui.
Tra le pieghe di Bridgerton, costume drama firmato Shonda Rhimes e Chris Van Dusen, e trasmesso da Netflix per la prima volta il 25 dicembre 2020, c’è però una realtà alternativa che pervade l’intera esistenza dei personaggi. Gli ideatori, distaccandosi dai nove romanzi di Julia Quinn dal cui primo libro, Il Duca e io, è tratta la serie, ci lanciano un’affascinante teoria possibilista, che noi spettatori accogliamo senza troppi traumi, vista la naturalezza delle vicende messe in scena: e se la regina Carlotta di Meclemburgo-Strelitz fosse stata davvero una mulatta, come lo storico Mario de Valdes y Cocom arrivò a sostenere attraverso indagini accurate? E se – teoria alternativa – dopo aver riconosciuto e accettato una regina mulatta, il popolo bianco avesse cominciato ad accettare e riconoscere anche tutta una aristocrazia di origini africane?
In questo 1813, in questo mondo alternativo apparecchiato per noi dalla ormai consolidata coppia Rhimes-Van Dusen, una sorta di ucronia permea la società londinese senza dare alcuna spiegazione. È un dato di fatto, nessun cenno a un passato razzista, nessun episodio di intolleranza. L’alta società, qui rappresentata con dovizia di dettagli – dal bon ton agli obblighi di discendenza, dalle differenze di genere ai costumi, dagli scandali ai vizi – è meravigliosamente multietnica.
Se la teoria multietnica è il piano diegetico principale, ma che troviamo già alla base del racconto e che quindi non rende necessario nessun tipo di dibattito, il piano diegetico secondario è quello che crea l’intero sviluppo della trama e i vari mondi possibili nell’intimo dei personaggi.
Il nome della serie tv, Bridgerton, è dato dalla famiglia protagonista, che il primo libro della Quinn descrive così:
I Bridgerton sono la famiglia più prolifica dell’alta società. Tale peculiarità è encomiabile anche se si può ritenere banale la scelta dei nomi fatta a suo tempo dall’ormai defunto visconte e dalla viscontessa per i loro figli: Anthony, Benedict, Colin, Daphne, Eloise, Francesca, Gregory e Hyacinth. Avere metodo è cosa meritoria, ma si pensa che dei genitori intelligenti riescano a ricordare il nome dei propri figli anche senza metterli in ordine alfabetico.
È la stagione del mercato matrimoniale di Regency London, e Daphne, interpretata da Phoebe Dynevor, è pronta al suo debutto. La regina Charlotte la nota e la adula, cosicché per lei pare sia già spianato un destino radioso. La strada però si prospetta subito in salita. Prima di tutto perché Daphne vuole sposarsi a ogni costo entro la fine della stagione, e secondo poi, non ammette di sposarsi senza amore. Piuttosto complicato, il quadro. Non diciamo se riuscirà nell’intento: a noi interessa entrare, come piccole api, nei salotti, nelle camere, negli studi, nelle carrozze di questa aristocrazia che compra e vende giovani mogli e mariti.
Facciamolo noi, il lavoro della famigerata Lady Whistledown, la più temuta, e finora misteriosissima, gossipara di Londra, che con il suo taccuino settimanale fa un bilancio degli errori e dei pregi di dame e signori. Uno dei mondi è scritto all’interno di quei foglietti, scavato nei solchi della penna acuta della sconosciuta scrittrice. Sarà una donna?, si chiedono. Oppure un uomo?, perché è più logico che sia un uomo a possedere così tanto sarcasmo. Lo so che vi viene da sorridere, è risaputo che la donna ne sia normalmente più dotata, e qui si apre un primo tema: la differenza di genere. Cosa significa essere donna nel 1813? Se non c’è più timore di razzismo – il duca di Hastings (Regé-Jean Page) è uno dei più potenti aristocratici di Londra, ed è nero – il dibattito sul genere ci conduce a un vero e proprio viaggio nella donna. Tanto che possiamo tranquillamente descrivere Bridgerton come un percorso edificante nella sessualità delle varie protagoniste. La scoperta del proprio corpo e la capacità di accettare il piacere (Daphne), il bisogno di non cedere alla protezione maschile (Siena-Sabrina Bartlett), l’orgoglio di un successo borghese (Madame Delacroix-Kathryn Drysdale), l’acume e la forza che portano al rispetto anche senza un titolo (Lady Danbury-Adjoa Andoh), la ribellione alle regole e alla perfezione (Eloise Bridgerton-Claudia Jessie), il genio sottovalutato (Penelope Featherington-Nicola Coughlan): sono i temi su cui consigliamo una riflessione al netto della trama da soap opera.
Pen, tra l’altro, è l’unico personaggio che ci stupisce, anche per la azzeccata interpretazione della Coughlan: nascosta e coccolata da una società che la vuole in un certo modo, è la vera – e silenziosa – outsider del gruppo. La madre non la calcola nemmeno come potenziale moglie di un signore, perché è troppo grassa; l’amica non la capisce nonostante l’amore fraterno che prova per lei; la società, compreso il suo amato Colin, la vede come la obbediente Pen di giallo vestita. E lei si ribella a modo suo, senza visibili clamori, senza deturpare il caldo grembo che la accoglie quotidianamente. Ma di nascosto dal suo mondo, lo scompiglio che crea è sensazionale, e riesce a smuovere continuamente, come zolle di terra durante un terremoto, tutte le certezze di un mondo paludoso.
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