INVIDIA . Lector In Invidia
La donna che mi aspetta
In 11 Agosto 2016 da Attilia Patri DPFinalmente siamo arrivati ad agosto, il mese della pausa per eccellenza, del distacco dalla routine, del cambio di pensieri anche se quelli soliti e più importanti te li trascini dentro, mentre fuori trascini da qualche parte una valigia.
Il periodo delle possibilità, delle nuove esperienze, dei nuovi incontri, dei nuovi ricordi da catalogare e archiviare nel reparto dei freschi a sostituire altri che sono arrivati a scadenza.
A volte capita che la possibilità sia quella di rivedere, ma soprattutto di rincontrare, le medesime persone, quelle, per intenderci, “stessa spiaggia, stesso mare” da sempre, quelle che vedi, tra arrivi e partenze, sì e no una ventina di giorni all’anno ma con le quali, dopo il fatidico “Ciao, come stai? Sei sempre uguale” riprendi a parlare di quasi tutto e di niente come se ci fossimo lasciate per un fine settimana lungo e non per undici mesi.
Persone che con la banalità del rito del “Sei sempre uguale” ti fanno già spuntare un sorriso dentro perché se da trent’anni e più “sei sempre uguale” allora per l’anagrafe matematica adesso tu hai trent’anni, gli anni buoni, quelli del “voglio, posso, comando”, almeno in teoria, dei bollori, dei mai stanca, dei ma sì c’è tempo.
E la frase, per quanto banale e bugiarda come bugiardo è un placebo, ti avvolge, accarezza, culla, ti cantilena dentro e un po’ ti rigenera, rinfresca, ristora mentre ti sale la risata del più realistico “Ma figurati! Dai andiamo a prenderci un caffè così mi racconti…”.
Poi, nel mucchio delle persone “stessa spiaggia, stesso mare”, c’è lei, una donna come tante altre, ma che sembra che mi aspetti lì a qualunque ora io arrivi; mi aspetta davanti alla porta di casa, mi sorride su quel pianerottolo all’ottavo e ultimo piano di un palazzo che dà su quella che qui chiamano la “villa comunale” che di villa non ha nulla ma è la piazza principale con la fontana, le palme quelle alte, la torre dell’orologio, il mondo che passa sotto, la vista mare garantita su tre lati, la distesa dei più bassi tetti a terrazza, i colori dei bacini del sale e il resto è solo cielo e azzurro di nuvole e acqua salata.
Su questa piazza ci sono arrivata per caso o forse perché il destino così aveva scritto per me e mio marito. Ad agosto torniamo sempre, salvo qualche rara eccezione, nella terra di origine dell’altra metà che condivide con me il significato di famiglia. E lei, quella donna, è sempre lì che mi attende impaziente.
Dunque lei mi aspetta e mi apre la porta della sua casa, quella piccola, da vacanza, con i mobili essenziali, il numero di sedie essenziale, il bianco essenziale dei muri e delle porte, poche porte quasi tutte sempre aperte che l’aria deve circolare.
“Entra”, mi dice e quei miei tre o quattro passi, che separano il pianerottolo ancora ingombro di bagagli dall’ingresso, diventano lievi e lo sguardo si fa più curioso e si perde tra quel bianco dei muri e quel verde acqua del pavimento che sembra correrti incontro come fosse mare, così come sembra correrti incontro il mare vero che vedi attraverso due terrazzine parallele che delimitano i confini della casa tra il dentro e il fuori con quella sensazione di sospeso tra cielo e suolo.
“Rilassati”, mi dice, “sei immersa in un liquido”. Liquido. Liquido come il mercurio che, lasciato libero, corre, si frantuma, si ricompone, si rifrantuma all’infinito. Liquido come il liquido amniotico che tutto sollevava, proteggeva e non sentivi alcun peso. Liquido come l’inchiostro che può arrivare a raccontare quello che a parole magari non racconteresti mai neanche a te stessa. Liquido come immagini sia stato il brodo primordiale, sacca primaria di ogni reazione e trasformazione. Liquido come l’acqua che origina e rigenera, come unguento che tutto lenisce. Ed è in questo pavimento liquido che immergo meraviglia e pensieri che viaggiano con me e non hanno bisogno di essere chiusi in valigia e, all’improvviso, mi sembra che da questa abluzione quasi biblica qualcuno, con fare delicato mi sorregga la testa alla base dove Atlante ed Epistrofeo si incontrano e si incastrano e mi sembra di respirare in modo nuovo. Respiro aria e odore di giorni sospesi, diversi, un po’ zingari, sommatoria di tanto fuori e di un dentro fatto di muri che proteggono ma non chiudono, di finestre e balconi aperti, di brezza che muove tende leggere impregnate dei colori che piacevano a Gauguin e anche la rappresentazione di quel quadro che tanto sintetizza i toni della piccola casa, “Polynesie, le ciel” di Matisse che hai appeso alla parete grande, sembra prendere vita perché il bianco deve essere interrotto da soffi di colore.
“Vivi”, mi dice con aria rassicurante e io le ubbidisco in mezzo a un corridoio che corre da Nord a Sud e mi basta voltare leggermente lo sguardo a sinistra per vedere in lontananza il Gargano, terra che emerge e mi rimanda ad altre finestre, quelle della casa vera, quella dei restanti undici mesi, quelle che nei giorni tersi vedi il Monte Rosa, vedi le tue origini, e, a destra, il Mar Adriatico, quello che a poche centinaia di chilometri diventerà altro.
Ubbidisco e vivo queste tre settimane che scorreranno ognuna con un ritmo diverso, con giorni fatti a volte di tanto e a volte di niente e già penso, ma cerco di schiacciare il pensiero, all’Invidia che proverò per questa donna sospesa tra cielo e mare su un pavimento verde acqua cangiante al variare delle ore quando l’altra, la solita, chiuderà la valigia e con passo un po’ greve ma allo stesso tempo nervoso, (perché quello che deve finire deve finire presto, anzi, subito) supererà quella soglia e affronterà il suo viaggio al contrario.
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