INVIDIA . Lector In Invidia
Il vespaio di Carmen
In 11 Gennaio 2018 da Attilia Patri DPDa Parigi – e ambientato a Siviglia – a Firenze, dopo aver fatto tante volte il giro del mondo. Data di nascita della sua Prima: Parigi, 3 marzo 1875 all’Opéra-Comique; data di morte: ovunque, in ogni teatro sia approdata; data di non morte: Firenze, 7 gennaio 2018, più cinque repliche fino al 18 gennaio. Tutte sold out.
Questi i dati anagrafici di Carmen la zingara maliziosa che seduce e abbandona Don José preferendogli il torero Escamillo. Carmen, il personaggio che dà il nome all’opéra-comique in quattro atti su libretto di Henri Meilhac e Ludovic Halévy, tratto dalla novella Carmen di Prosper Mérimée e musica di Georges Bizet.
Carmen e la libertà del suo amore che si scontra con la gelosia di Don José in un confronto di concezioni di vivere opposte; libera e sfrontata l’una, possessivo e vergognoso l’altro, tingeranno di tragedia i momenti ultimi del finale dell’opera, quando Don José, accecato dall’ira, ucciderà Carmen con una pugnalata e si consegnerà poi ai gendarmi.
Carmen è vittima come, del resto, tante altre donne raccontate nel melodramma: creature di fantasia, protagoniste di storie indimenticabili, eroine di carta che si fa musica e vittime dell’insidia maschile, dell’oppressione della volontà di fratelli, padri, pretendenti, emarginate dalla società o ricattate dal potere oppure vinte da un amore impossibile che le conduce all’estremo annullamento di sé. Poche riescono a sfuggire a questo destino per riscattarsi con un lieto fine o, almeno, con una compensazione dei torti subiti, al punto che, nel melodramma ottocentesco, la donna sembra trovare una ragione d’essere solo nella suo completo annientamento.
Anche se scritta prevalentemente da uomini, la lirica era, è, e rimane un affare di donne, un campionario senza tempo dell’universo femminile con tutti i suoi stereotipi: dall’eroina romantica, languida, fremente, appassionata, malata, pura, votata al sacrificio, a Cio Cio-San, Madama Butterfly, che si tormenta per amore di colui che crede essere il suo Destino, dalla gelosa Tosca, all’indomita Aida e Abigaille, che vai a capire se ha più brama di potere, invidia o passione; dalla semplice Gilda alla volitiva Leonora, dall’immortale Violetta all’indipendente Carmen. Nomi di fantasia che non declinano unicamente in una galleria di ritratti femminili ma possono offrire anche l’occasione di momenti di riflessione sulla condizione della donna nel passato e nel nostro tempo: le discriminazioni, le violenze subite, gli stati depressivi, l’ambizione femminile non sempre considerata un valore. Nomi di fantasia di un periodo antico ma che riflettono, anche oggi, una reale e cruda visione e condizione, spesso mortificante e mortificata, della donna perfino nei paesi più industrializzati.
Sono donne di carne e di sangue, di testa e di cuore, donne che pur abitando la ribalta del palcoscenico somigliano a quelle che si possono incontrare per strada o mentre facciamo la spesa o siamo in fila alla posta, che riconosciamo tra le colleghe, le amiche: donne con caratteri ben precisi, concrete e reali, vere ognuna alla propria maniera, che vivono senza lasciarsi vivere, provano a scegliere sapendo di poter sbagliare, pagando le loro scelte e facendo, alla fine, i conti con il proprio vissuto. Sono le donne che spesso la cronaca ci restituisce sotto forma di trafiletto, di notizia che passa in fretta, spesso tinta di rosso, in una narrazione che sembra non finire mai di mogli, figlie, amanti uccise in ambito domestico, di lavoratrici sottoposte a molestie o di donne socialmente emarginate per appartenenza a una cultura o etnia diversa dalla dominante o per scelte in ambito sessuale o religioso diverse da quelle dettate dalla mentalità generale. Sono donne di questo millennio che cercano di rimanere a galla in contesti rimasti decelerati rispetto al passare del tempo e che si arrabattano in dinamiche amore/potere, amore/convenzioni sociali, amore/ordine familiare, a volte con conseguenze spesso devastanti sia a livello fisico che psicologico. Sono le donne che la cronaca ci restituisce con le ammaccature fatte di botte, di preclusione, di ricatti in nome dei figli, di volti devastati da acido corrosivo o che, a volte, non ci restituisce affatto e rimangono in attesa in freddi contenitori di obitorio. Sono le donne per le quali ci si spende in dibattiti fatti di parole spesso solo di circostanza, in battaglie che non sempre la denuncia e la giustizia riescono a sostenere e a rendere efficaci, in simboli e giornate dedicate che rimangono fine a se stesse, in campagne globali contro la violenza di genere alle quali tutte le istituzioni sono invitate ad aderire con apporti significativi.
Un’idea di apporto significativo al tema del femminicidio, nelle intenzioni, era maturato, in estate, anche a Firenze nell’ambito della programmazione nel teatro del Maggio Musicale Fiorentino, con quell’idea del suo direttore e del regista – che doveva curarne l’allestimento – di portare sulle scene una Carmen che nel finale non cadesse vittima di un uomo per la sua natura libera e sincera, bensì si salvasse: “E se questa volta non morisse? Perché dobbiamo far applaudire a una donna uccisa con tutto quello che succede? Io credo a un ruolo etico del teatro, a una sua funzione sociale e deve fornire spunti di riflessione”. Carmen non deve morire.
Quell’idea che, alla fine della prova generale del 5 gennaio aperta agli studenti, si potesse affrontare, nella Caffetteria del Teatro, un incontro sull’argomento del femminicidio; incontro a cui erano invitati anche numerosi volti noti della vita pubblica italiana con la loro testimonianza personale in forma di pensiero, lettera, brano, articolo, poesia, da condividere con i partecipanti con lo scopo di sensibilizzare il giovane pubblico ad un tema più che mai attuale.
Un’idea, un flash solo sul finale, senza cambiare il testo, nemmeno nelle battute finali quando tutto cambia e, al calare del sipario, ci sarà Carmen viva inginocchiata accanto al cadavere di Don José.
Un’idea, un ponte fra passato e futuro, tradizione e avanguardia. Si spengono le luci e si va in scena. Ne parlano anche il Times di Londra e Al Jazeera.
Buona la Prima? Macché! I più influenti, i cultori della cultura classica, i soliti noti tutti a storcere il naso e il pubblico diviso. E qui mi schiero e salgo sul carro dei “non vincitori”, dell’idea che è sembrata essere così bislacca ai più e che va in scena per sei volte. Mi schiero dalla parte di Carmen la donna.
Lascio agli altri il pensiero inutile di: “Che cosa direbbe Bizet?”. Bizet non direbbe nulla soprattutto se ripensa alla sua di Prima, all’Opéra-Comique. Fu un fiasco. Nessuno capiva cosa esattamente avesse portato sul palco con quell’opera che con il suo finale tragico di Comique non aveva nulla, con quell’assoluto verismo dove i personaggi incarnavano il proletariato urbano contemporaneo nelle condizioni di vita, nei costumi e nel modo di parlare, e con quella interprete di Carmen che sembrava la perfetta incarnazione del vizio e che scandalizzava i signori col cilindro pur rappresentando un tipo di donna che incontravano spesso nei bordelli e le cui condizioni di vita, loro stessi, contribuivano ad alimentare . Ci vorranno anni, Vienna, Londra e il resto d’Europa prima che l’opera venga realmente apprezzata e diventi un capolavoro a livello mondiale. E poi, Bizet, perché dovrebbe offendersi proprio adesso, dopo che, nel 1987, l’aria adattata di Habanera (L’amour est un oiseau rebelle) ha fatto da colonna sonora a una pubblicità di detersivi? Anche allora, quindi, si sarebbe potuto interpretare la scelta come sfregio al “classico” e come irrispettoso uso delle opere culturali. Rimane, invece, una delle più belle espressioni di réclame prodotte e che il pubblico ricordi, e non certo perché pensa che ha i pavimenti da pulire. O la rivisitazione in chiave rap del cantautore Stromae dedicata alla febbre da social network.
Lascio agli altri anche il pensiero che, con il finale modificato, “si stravolge il senso dell’opera di Bizet”, quel senso che, nell’ottica tardo-ottocentesca, è la giusta punizione per una donna che non sa stare al suo posto e rappresenta un elemento disturbante per una società che tende a escludere chi non vive secondo la morale vigente. Il senso di Carmen che preferisce la morte piuttosto che sottostare e rinnegare la propria libertà. Che poi è il senso di tante donne che con la morte violenta per mano di un uomo riempiono minuti di telegiornali. Non si vuole stravolgere nulla: si lascia all’800 il suo contesto storico ma si cerca di togliere dal nostro quel vago – e neanche tanto vago – sentore dell’andarsela a cercare, o della donna oggetto, ogni volta che violenza maschile trionfa. Più semplicemente il finale modificato è solo uno spunto, temporaneo, e sottolineo temporaneo, per parlare in modo diverso e attuale a spettatori diversi di epoche diverse. Nessuno vuole cancellare nulla o mancare di rispetto all’originale. Tantomeno si vuole sminuire la grandezza di Bizet cambiando gli allestimenti e ambientando il tutto in un campo rom anni ottanta, spostando il tempo dell’azione per una visione di insieme più vicina alla nostra epoca.
Lascio agli altri il convincimento che i “classici” siano mostri sacri inviolabili altrimenti andrebbe buttata al macero quel capolavoro della parodia de I promessi sposi del trio Marchesini-Lopez-Solenghi. E perché mai?!? Manzoni resta Manzoni nei secoli dei secoli: non gli è stato tolto nulla. Anzi! Semmai ce lo hanno reso più simpatico. “Dal femminicidio all’opericidio”, tuona qualcuno. Io lo lascio tuonare. “Immaginate un’Iliade in cui Ettore uccide Achille: a Omero un po’ girerebbero”. Ma possiamo immaginare tutto quello che vogliamo, possiamo arrivare a una nuova e immaginaria culla della civiltà, possiamo anche rappresentarla a teatro ma il racconto epico rimarrà quello: Omero rimarrà Omero e l’Iliade che conosciamo non si cancellerà solo per questo. “Siccome non sappiamo cambiare il presente, cambiamo il passato, soprattutto il più glorioso” è l’apoteosi della temperatura del disprezzo per il cambiamento in sei rappresentazioni. Ribadisco sei.
Lascio agli altri la lettura maliziosa che si sia voluto accontentare il boldrinismo culturale perché il problema della violenza sulle donne non è appannaggio di qualcuno o di una certa visione politica, ma è un problema trasversale a tutti e non ha bandiera o colore.
Lascio una non risposta al tenore che, intervistato su cosa ne pensasse del finale diverso, ha rilasciato: “Io mi sarei rifiutato di cantare” perché lo ritiene un tentativo di banalizzare l’arte, attaccandosi, ovviamente, al per principio. Un per principio che non sapremo mai dove sarebbe finito se qualcuno gli avesse offerto la parte e il giusto cachet ma nessuno gliel’ha offerti.
Lascio ridere e non mi unisco alla risata di chi ha trovato esilarante l’intoppo della pistola che si inceppa nel momento topico della salvezza di Carmen. Niente sparo, dunque, anche se Don José è “morto” lo stesso e metafora, se vogliamo, di violenza che non si combatte con altra violenza. “Per certi versi si può dire che questo finale imprevisto ha chiuso un cerchio. Carmen era nata nel 1875 all’Opéra-Comique e si è conclusa stasera in un modo che più comico era difficile immaginare”.
Attenzione a chiudere così in fretta il cerchio, a ritornare all’iniziale “fiasco” all’Opéra-Comique dove tutto è cominciato – con gli stessi fischi che oggi riecheggiano a Firenze – per essere innalzato a capolavoro supremo in tutto il mondo.
Chiudo anch’io il mio cerchio. Sto sempre dalla parte di Carmen che non muore.
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