IRA . Lettere dall'Ira
Diario di una puttana istruita
In 3 Marzo 2023 da Chiara MenardoE io, che sono grotta e foresta, cosa ho da dire, in fondo?
Appoggiata, sbadata, a questo muro coperto di vecchi manifesti strappati, il respiro che passa attraverso il rossetto e si fa vapore, nuvola, bagno turco e promessa, ti aspetto. Fari. Freni. Sibilo del finestrino che scende, frusciante. E poi, il tuo alito e la voce nel buio.
Una sola parola, sempre la stessa. Quanto. Senza nemmeno la curiosità di un punto interrogativo. Quanto, e basta così.
10, 20, 30, 150, 200.000: che importa? È una formalità.
Tu immagini solo la grotta e la foresta che la circonda, il tropico umido e caldo che sta lì, nel baricentro, ad attenderti. Tutto il resto, il viaggio per arrivarci, è affar tuo. La grotta e la foresta, quelli sono solo affar mio.
Tu non hai storia, così come non ce l’ho io. Dimenticate entrambe in uno scantinato, dentro scatoloni coperti di muffa.
Annusi l’aria come un cane da tartufo, alla ricerca di quel profumo che ti fa scegliere me invece di quella là con i leggings e le tette di fuori, quella che sta in piedi a dieci metri da qui. Quella come me, un’altra grotta e un’altra foresta, che aspetta un altro te. Come la madeleine di Proust, cerchi qualcosa che ti riporti alla mente altro, quando non ti sentivi solo e infelice, così misero da dover pagare una grotta e una foresta per venti minuti. Dieci, venti, la prestazione è veloce come il cartellino timbrato prima di entrare in fabbrica. Un semplice atto.
Quando trovi la tua madeleine annusando quel feromone che ti porta altrove, a qualcosa di meno squallido del tuo oggi, allora quel quanto senza alcun punto interrogativo diventa portiera dell’auto che si apre da dentro e lenta si spalanca. Un sedile in tessuto, una minigonna che ci si appoggia, un motore che riparte.
Piazzole deserte come gli spiazzi impolverati che portano da New York alla casa di Gatsby. Ma senza lo sfarzo disperato della destinazione. C’è solo la disperazione, ed è muta. Invece ci sono l’umidità fredda delle nebbie di novembre che salgono e si arrotolano come un gatto intorno alle case, come diceva Prufrock nella sua canzone d’amore – ma quale amore, poi? -; o il caldo pesante delle notti di luglio, quando il sudore e la cappa ci avvolgono come un sudario inzuppato che inceppa il respiro, la voglia – la mia, che tanto non c’è mai. Proprio mai -, lo scorrere dei vestiti intorno a quei pochi centimetri di pelle che vanno liberati per espletare il commercio.
Sei alto, sei basso, sei sfigato o sposato, bello oppure un cesso a pedali. Un edicolante non guarda a chi vende il giornale, io non guardo come sei fatto. Una teoria di occhi, labbra bagnate e cazzi piccoli, medi, grandi. Tu non sei nient’altro: solo il prossimo, l’ennesimo, né il primo né l’ultimo.
E non ti racconterò di me, quando lo chiederai. Perché ogni tanto, andando verso o ritornando dalla piazzola disperata e sfigata di Gatsby, ti viene alla mente di scambiare due parole, e di solito non ti racconti, chiedi di me. La tua storia la sai, ed è abbastanza squallida e triste da essere dimenticata. Sempre la solita domanda senza punto interrogativo: come sei finita qui. Il qui è un bordo di marciapiede. Taccio, di solito, perché ieri non è importante, così come non lo è domani. Hic et nunc, qui e adesso. Tu sei un altro tassello del passato, quando hai aperto la portiera dell’auto. Sei il presente, adesso che guidi guardando attento le strade ed eventuali lampeggianti dei carabinieri per rallentare entro i limiti e non dover giustificare a nessuno cosa ci fai qui e adesso in gironzola con una troia seduta sul sedile del passeggero. Sei il futuro, quando avrai fatto ciò che farai, per cui abbiamo stabilito in anticipo prezzo e prestazione esente da IVA e fattura e mi avrai riportata al mio muro coperto da strati di manifesti strappati. E in ogni momento sei e sarai presente e passato. Tutto scorre. Panta rei.
Io non ti interesso. Non interesso nemmeno a me stessa, sono parte dei granelli di sabbia che compongono la spiaggia infinita dell’umanità: uguale a te e a milioni di altri, anche se ciascuno di noi coltiva la segreta, tacita convinzione di essere in fondo diverso dagli altri. E questo non è necessariamente perverso*.
Ma tu non lo sei, voce che sussurra quanto appoggiata al volante. E neppure io lo sono. Io, fornita di grotta e foresta, a disposizione di una portiera di auto con il mio bel tariffario scandito come l’orario dei treni in stazione. In partenza sul binario 4…
Sussulto come un asfodelo mosso dal vento e dalle sospensioni dell’auto che si intrufola nei sentieri che tagliano i campi di periferia, verso una piazzola coperta di fazzoletti stropicciati e preservativi gettati dal finestrino. Sussulto e non penso a nulla, galleggio come un pezzo di sughero in mare, sentendomi il nulla con mani e piedi. Nulla, grotta e foresta. Improbabile, né vinta né persa. Sono un giorno uguale a tutti quegli altri che sono stati e i prossimi a venire, una tra miliardi di pagine mai pubblicate né lette. Tra poco questo viaggio, l’andata, la sosta e il ritorno, saranno passato e scivoleranno via dalla memoria come tutti gli altri istanti di questo mio tempo. Guardo i cespugli scuri e contorti che scivolano via, fuori dal finestrino. Cercare un senso è del tutto inutile, uno sforzo increscioso, deprimente, senza alcun senso. Hic et nunc.
In fondo, non c’è nulla di male, di triste o di storto: la sensazione di essere l’ultimo o il meno probabile concede certe libertà*.
*David Foster Wallace – Infinite Jest e Decisorizzazione 2007 – un resoconto particolare
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