IRA . Racconti da Kepler
Seduto in un Saloon di Pittsburgh
In 11 Settembre 2015 da Il Viaggiatore11 settembre 1847 – Sono a un tavolo dell’Eagle Saloon di Pittsburgh questa sera, tra fumo e calici semivuoti del vino novello della Willamette Valley. E chiasso, le chiacchiere degli avventori. Il grande specchio dietro il bancone di legno me l’aspettavo e non posso dire di essere deluso.
Tra poco partirà la serata musicale, vedo i musicisti preparare gli strumenti e gli ultimi accordi. Trovo i musicisti davvero affascinanti: la capacità di regalare emozioni con un’arte che è per tutti. Il mio bicchiere è vuoto, me lo farò riempire con la birra di John Huck e John Shneider.
Bella città Pittsburgh, strappata alle tribù indiane che vi abitavano dai francesi che conquistarono la Pennsylvania che gli venne poi strappata dagli inglesi. E pure questo Saloon mi porta in un mondo visto solo nei film.
A quanto pare il concerto sta per iniziare, l’ho sentito dagli ultimi accordi dei musicisti sul palco e intravisto dai loro sguardi complici.
Sto per ascoltare la prima esecuzione pubblica di una delle canzoni folk più conosciute, cantate, diffuse nel mondo e pure parodiate, talvolta anche in versioni abbastanza volgarotte. L’ha scritta Stephen Collins Foster a 21 anni. Ho letto che è un musicista prodigio. Quello che non sa è che la canzone avrà un successo straordinario e sarà eseguita anche due secoli dopo in tutto il mondo. E subito diventerà l’inno dei cercatori d’oro.
Personalmente, ma per motivi di coro calcistico (pensa te che fine fanno le canzoni dell’Ottocento), sono maggiormente affezionato a Camptown Races, ma non sa ancora che la scriverà fra tre anni.
Il quintetto parte con le prime note e il cantante e con il suo banjo inizia la prima strofa.
I come from Alabama with my Banjo on my knee —
I’m goin’ to Louisiana my true love for to see.
Se non mi documentavo non sapevo che questa canzone è una polka, arrivata come genere con gli emigranti dall’Europa e ha finito con il mescolarsi con gli altri generi: gli Stati Uniti sono davvero un miscuglio, in alcuni casi mai del tutto risolto, di razze, colori, cibo e musica: e per vederlo mi basta guardarmi attorno. Mentre corre veloce questo pensiero sento anche
It rained all night the day I left, the weather it was dry;
The sun so hot I froze to death—Susanna, don’t you cry.
E il coro che intona.
Oh! Susanna, do not cry for me;
I come from Alabama, with my Banjo on my knee.
La mia birra e il loro vino novello, le urla del tavolo vicino e gli schiaffetti sul sedere della ragazza del saloon già accompagnano il quintetto, quando parte il coro battendo vigorosamente i piedi sul pavimento.
Incrocio il suo sguardo e mi verrebbe da dirgli: “Ehi Stephen, complimenti”.
Qualcuno gli potrebbe dire che possiede l’X Factor, ma per sua fortuna questa se la evita.
Ciao Pittsburgh, magari ci rivedremo ancora: “Oh! Susanna, do not cry for me…”
Alla prossima.
Trovate lo spartito originale qui
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