DiarioXY . LUSSURIA
Appunti di un venditore di donne
In 17 Settembre 2022 da Chiara MenardoIo mi chiamo Bravo e non ho il cazzo.
Questa poteva essere la mia presentazione. Il fatto di andare in giro con un soprannome invece che con un nome vero e proprio non significa niente. Ognuno è quello che è, a prescindere dalle scie burocratiche che si tira appresso come le stelle filanti di un veglione di Carnevale. La mia vita non sarebbe cambiata di una virgola, qualunque nome avessi avuto da offrire insieme a una mano da stringere. Niente di più e niente di meno. Non una salita o una discesa, non un braccio di mare calmo o agitato in cui affannarsi o di cui rimpiangere l’affanno. Non avere un nome era un provvido cono d’ombra in cui celarsi, un volto appena intravisto, una figura percepita, il nulla, il nessuno. Dal momento in cui io ero quello che ero, una simile condizione racchiudeva nello specifico tutto ciò che mi serviva, senza opzioni e senza deroghe.
Giorgio Faletti, Appunti di un venditore di donne, Baldini Castoldi Dalai, 2010
Si fa chiamare Bravo e, davvero, il cazzo gli manca. Un moncherino ricostruito alla meno peggio e il nulla, lì sotto.
Io invece non mi faccio chiamare. Sono due tette e una figa in vendita, chiamami un po’ come ti pare. Sono una del giro dello scazzato, ed è tutto.
Facciamo così: non ce l’ho, un nome e, se mai l’ho avuto, è dimenticato da tempo.
A quello, che pure ci tratta dignitosamente e paga puntuale e controlla i clienti perché non siano troppo svalvolati, quando mi sono proposta e mi ha chiesto chi sei gli ho risposto fai un po’ tu, che a me frega il giusto.
Così mi chiama Anna perché è corto e facile da ricordare, sono l’Anna, terzo numero di telefono della seconda pagina della lettera A della rubrica di Bravo. Punto.
Due tette, una figa e un non – nome. Quando i clienti mi chiedono, anche a loro rispondo fai un po’ te. A loro non dico che a me frega il giusto, loro vogliono sentirsi dire chi vuoi che io sia? E sono tutti contenti della donna di pongo che, per un’ora o una notte, dipende dal prezzo – nella vita, tutto è solo questione di prezzo -, esce dai loro cervelli per salirgli in groppa sul letto di un albergo a ore discreto e isolato sulla provinciale.
Come si finisce a diventare me, uno mi ha chiesto una sera mentre toglievo i vestiti con esasperante lentezza partendo dalle mutande, così come da sua indicazione (credo fosse quello che mi ha chiamata Brigitte, come la Bardot. Penoso). Si finisce, gli ho risposto tirando la gonna oltre i fianchi. Non ha chiesto altro, non ha approfondito: quando l’orlo è salito, ha avuto altre cose da fare, armeggiando tra cintura e mutande.
Come si finisce a diventare me, senza nome né storia. Si finisce, se sei il pezzo sbagliato di un puzzle in cui hai/hanno provato a infilarti a forza. Qualcosa che non c’entra nulla, che non sta bene da nessuna parte, una nota di fondo sempre e comunque stonata.
Non racconterò di mio padre, del vino e i silenzi, di mia madre e delle sue ossessioni madonnare, le vite dei santi e il peccato sempre a portata di mano. Non racconterò del maestro del coro della chiesa e del suo cazzo (lui ce l’aveva eccome, non come Bravo), quando non avevo ancora le tette.
Non racconterò perché non ho mai raccontato, non ho bisogno di orecchie che ascoltino. Soprattutto, non ho bisogno di tutti quei ma: eh ma devi capire, eh ma è successo, buttatelo alle spalle, eh ma la memoria distorce i ricordi non è di certo andata così, eh ma in fondo avrai civettato, sbagliato, peccato, parlato, voluto, sognato…
Eh ma un paio di palle. Rinnega tuo padre. Fatto. Ripudia il tuo nome. Fatto. Non sono mai stata una Capuleti, né mai lo sarò, mi sono fermata ai due versi. Tanto, mica sono Giulietta. Mai avuto un Romeo.
Sono una che sopravvive dandola in giro a fronte di un compenso più o meno adeguato, che dorme di giorno abbracciata a un cuscino in una stanza con un po’ di muffa al soffitto, che si alza alle cinque del pomeriggio e fa colazione con un cornetto comprato la notte dal panettiere sotto casa che le fa credito e ogni tanto sale per divertirsi mezz’ora quando la moglie non c’è. Sono una che scopa per mestiere, dalle nove di sera alle quattro del mattino o più in là, sabato e festivi compresi. Clientela pulita, abbastanza controllata, a Bravo la sua percentuale e a me il resto.
Sono una che ha aspettato di diventare qualcuno e, quando ha capito che per stare nel puzzle avrebbe dovuto nascere qualcosa d’altro, si è semplicemente sciolta, come l’idrolitina in una bottiglia d’acqua. E vado bene per Bravo e il suo giro, vado benissimo. Senza grandi pretese se non quei quattro soldi per affitto, cornetto e vestiti, senza grandi parole… senza.
Un pezzo del puzzle che non sta da nessuna parte, una cornice senza il quadro dentro, sbrecciata, sui tacchi, vestita in lamé. Non parlo, non vedo, io non dico nulla. E un giorno, quando andrò via, magari sgozzata su un letto d’hotel sulla provinciale, oppure d’infarto, o sputando i polmoni per le sigarette – troppe – o per il whisky da quattro soldi che mi rifilano e non rifiuto mai, almeno quel giorno spero di starci, da qualche parte. Non fosse altro che in una cassa di pino.
(ADV)
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