
DiarioXY . LUSSURIA
Fredrick Chilton
In 10 Dicembre 2016 da Chiara MenardoCazzo! Oh, cazzocazzocazzocazzo!
E ora che faccio? Scappo. Cambio connotati, vita, faccia, voce, impronte digitali, nome, numero di previdenza sociale, numero di telefono, casa, auto, razza, religione, stato.
Cambio tutto, via, scappo via più lontano che posso da qui, da ora, da lui: il mio incubo, la mia dannazione, il mio alter ego buio e bastardo, assetato di carne e di sangue. Per la precisione, del mio sangue.
Quel pazzo se lo beve, il sangue. Lo cucina e se lo beve, lo mangia, gli affoga dentro croutons imburrati dopo averlo mischiato con aglio schiacciato, zenzero e pepe, cotto a fuoco lento e stemperato con brodo di carne. Lo sorbisce con aria goduta e affettata.
Carne. È la mia carne che vuole lessare, smembrare, masticare lentamente godendo di ogni fibra e sputando voluttuosamente ogni nervo.
Mi odia. Mi ha sempre odiato come può odiare un essere immondo, infame, un’anima nera inzuppata di inferno.
Avevo per le mani il paziente importante, il viatico per la celebrità, il serial killer più feroce della storia, uno che Jack lo Squartatore scansati, sei un’educanda che in confronto salva i gattini dal sacco e dal fiume.
Che dovevo fare? E voi, progressisti appollaiati sui divani di pelle circondati di tappeti e caminetti di marmo: voi, che avreste fatto al mio posto?
Dirigo un ospedale psichiatrico, insomma! I pazzi li conosco, li osservo e li studio. Li detesto, esseri con il cervello pieno di spifferi putridi.
Come si fa ad amare i pazzi, mi chiedo? Cosa volete capire, e come?
Ve lo dico io, a voi soloni radical chic al vino bianco frizzante da checche, ora ve lo spiego io.
Semplicemente, non si può.
Li prendi, li rinchiudi e li imbottisci di farmaci che tappano quei buchi da cui esce la fogna, che spenga le voci e le luci e tutto il resto.
Li usi, li studi, gli vivisezioni la testa e poi basta.
Li tieni lì e li osservi farsi neri di seghe, singhiozzare davanti a una piastrella bianca o strapparsi le ciglia urlando dal dolore inutile che gli provocano quei loro cervelli mal funzionanti. Un giorno dopo l’altro, loro dentro e tu fuori, a fissarli nei monitor, a cercare di tirare fuori qualcosa con cui scrivere l’articolo che ti porterà sull’American Journal of Psychiatry e poi su, ancora più su. Ecco cosa puoi fare.
Di sicuro non puoi prenderci il tè delle cinque con i biscottini.
Lecter era il mio lasciapassare per la bella vita, cazzo! Osservare il suo abisso come si osserva una farfalla infilzata in uno spillo, questo era il mio compito.
E se per assolvere al mio compito beh… ho usato scariche elettriche a volte, o cinghie a volte, o qualche pasticca di troppo a volte che vuoi che sia, per il bene superiore della scienza psichiatrica e del mio posto alla presidenza dell’American Psychiatrics Association?
Non sarebbe mai uscito da quella cella nel seminterrato, mi avevano assicurato. Non avrebbe mai e poi mai dovuto mettere fuori il naso da quella cella nel seminterrato.
Mi direte che l’ho fatto uscire io, da quella cella nel seminterrato.
Ma cosa avrei dovuto fare con un poker d’assi in mano, se non giocarlo? Avevo l’ascensore per il potere, la ricchezza e la fama finalmente fermo al mio piano, spalancato e invitante e che avrei dovuto fare? Non prenderlo e continuare ad arrancare su per le scale? Mica sono scemo, io.
Chi lo immaginava che sarebbe riuscito a fuggire mangiando nel frattempo una faccia, staccandola a morsi, appendendo una guardia alle sbarre con l’intestino di fuori, drappeggiato come un peplo? Incapaci, banda di incapaci pericolosi, quelli della polizia, l’FBI e quella sciacquetta con gli occhi da daino che secondo me se lo ripasserebbe pure.
Chi, si ripasserebbe? Ma che ne so, il capo, il pazzo, il poliziotto… però non si ripasserebbe me, questo me lo ha fatto capire fin troppo bene. E dire che mi ero persino offerto di farle fare un giro per la città: l’avrei portata a mangiare i granchi al porto, ce la saremmo spassata. Ma lei no, non con me. Un’altra che ha detto ‘no grazie’ con gli occhi affilati come le forbici puntati sulla mia giacca a quadrettoni e sulla cravatta. Una come tutte le altre.
Un altro no.
Forse dovrei cambiare dopobarba.
Intanto, cammino nervoso con il bavero della giacca tirato sul viso e il cappello calato a nascondermi i tratti. Il marciapiede è affollato di gente, le guardie del corpo, discrete, mi seguono senza farsi notare.
“Ora devo lasciarti, ho un amico per cena.”
Clik.
Il libro…
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Titolo: Il silenzio degli innocenti
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Autore: Thomas Harris
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Prima edizione: 1988
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Ancora uno spigolo in cui sbattere il mignolo, così, mentre si cammina sonnecchiando, dando per scontata l’oramai conosciuta trama… e invece Chiara Menardo dimostra quanto manca del multiverso: asciutta ed efficace, bravissima, come solito.