DiarioXY . LUSSURIA
Notre – Dame de Paris
In 20 Marzo 2021 da Chiara MenardoDopotutto, egli volgeva a malincuore la faccia verso gli uomini. La sua cattedrale gli bastava. Era popolata di figure di marmo, re, santi, vescovi, che se non altro non gli scoppiavano a ridere in faccia e non avevano per lui che uno sguardo tranquillo e benevolo. Le altre statue, quelle dei mostri e dei dèmoni, non avevano odio per lui, Quasimodo. Assomigliava troppo a loro perché lo odiassero. Era molto più facile che sbeffeggiassero gli altri uomini. I santi erano i suoi amici, e lo benedicevano. Con loro, pertanto, egli si abbandonava a lunghi colloqui pieni di effusione. Gli capitava di passare intere ore, accovacciato davanti a una statua, a parlare solitariamente con essa. Se sopraggiungeva qualcuno, sgattaiolava via come un innamorato sorpreso durante una serenata.
Victor Hugo, Notre-Dame de Paris
Cantano e si arrampicano come capre sulle rocce vestiti di stracci o broccati; uomini, donne o infanti. Vociano e muovono i piedi, le teste e le mani nella piazza davanti le porte, genti circondate di genti. Nessuno che riesca a imporre il silenzio, bifolchi ornati di pulci e campanelli, mescolati a chierici e mercanti che si raccolgono qui, innanzi a queste mie pietre.
Dall’alto Lutezia è un baccanale di tetti ammucchiati. Dal basso, Lutezia è un verminaio di esseri che schivano altri esseri, cavalli ed escrementi, banchi in cui si vende di tutto: uova e pollame, vasellame e cavoli, vino acido e annacquato e responsi di fattucchiere dai denti marciti.
Dame che trattengono gli orli delle vesti per non bagnarli nelle pozze scure, che non si sa cosa sia stato a riempirle, ed evitano mendici che sporgono le mani nodose in attesa di un soldo o un pezzo di crosta di pane. Uomini in armi, soldati o masnade, che spingono in truppa compatta e dividono la folla così come Mosè divise il Mar Rosso. Brusii, da quassù.
Gente e gentaglia si mescola davanti alle pietre delle mie mura, in un’orda di rumori e di odori, rivoli e fiumi di uomini piccoli, così piccoli rispetto alla facciata di pietra, agli occhi severi delle statue degli uomini santi, alle fauci spalancate degli esseri oscuri intagliati nelle rocce brune che osservano l’umano, insensato agitarsi.
Ce fut en mai
Au douz tens gai
Que la saisons est bele,
Main me levai,
Joer m’alai
Lez une fontenele.
Cantano forte e ridono, battono su tamburelli di pelle d’asino, ballano ghignando tra gli sberleffi e i rimbrotti, portano l’uomo in processione su un carro. Deforme, mio figlio, così simile ai miei figli di pietra. Irriso, felice, egli diffida di chi mai gli ha teso la mano. Solo, il mio mostro silente che balla insieme alle statue nelle notti di luna. Dicono che la sua sola vista faccia inacidire il latte nelle brocche. Dicono che sia figlio di un peccato che non si può immaginare, la giusta punizione di un Dio senza cuore, ma giusto. Che la Giustizia non ce l’ha, il cuore. Dicono. Le genti dicono sempre. Senza fermarsi un istante, fanno marciare le lingue.
E mio figlio, quell’uomo a metà, troppo di qualcosa e troppo poco di altro, storto e gibboso, mezzo cieco, sordo e muto. No, muto non è, lui parla con coloro che conosce: discorre con i miei angoli, con gli anfratti dove la luce non arriva mai, con gli occhi ciechi parimenti al suo, occhi di pietra dipinti del medesimo colore del cielo da mani ignote: mani fini, sottili, delicate. Mani che no, non erano le sue. Egli ci accarezza e suona per noi, mentre sulla piazza qui a fronte il mondo continua a scorrere, e nessuno si rivolge a me.
Alle statue, all’altare, alla Vergine da cui prendo il nome. Ma, a me? A tanta bellezza, alle mani di chi mi ha costruita, alle torri che svettano al cielo e sembrano eterne? Chi si rivolge al fiume e alla piazza? Passano lesti e vanno verso i loro commerci. Un giorno loro più non saranno mentre io, con queste mura, sarò ancora qui ad osservare e ascoltare i riverberi delle loro piccole vite, a guardare i mercanti gridare quanto siano belle le loro stoffe e i soldati marciare compatti come doghe di botti, gli sguardi sprezzanti e le daghe strette nel pugno, sotto i mantelli.
Nella penombra fresca delle mie volte a pensare, pregare e pentirsi, dovrebbero stare. Inginocchiati di fronte a quei santi e quegli esseri informi creati per ricordar loro di non peccare, di non pensar male e di non fare il male, di non prendersi gioco di alcuno e obbedire ai prelati, che così si conviene alla folla che sulla piazza adesso passeggia, nell’anno del Signore 1482 per celebrare l’inizio del Carnevale. Gli stolti che ridono, sbafano e bevono a canna, ubriachi di gioia folle nel giorno in cui tutto è concesso.
En un vergier
Clos d’aiglentier
Oi une viele;
La vi dancier
Un chevalier
Et une damoisele*
Risuonano fin qui le note empie della festa pagana che porta in processione il mio prediletto, ornato di campanelli d’argento che non sa, non comprende, diffida e sorride.
La notte che arriva lo vedrà ritornare, anch’egli ubriaco, per un giorno solo di quella sua misera vita, felice del dono di scherni e di lazzi che gli è stato fatto, oppure trascinerà le sue membra deformi come un verme strisciante, il viso rigato da una lacrima, la sola che può uscire dal suo unico occhio? E mi parlerà, si confiderà ancora una volta con le mie colonne istoriate? Saprò che è successo, poiché non so quello che succederà?
Io vedo Lutezia cambiare. Le case che avanzano e arretrano sotto i colpi dei nuovi che arrivano dalle campagne. Vedo i commerci, i prelati e le laudi cantate nelle mattine di messa. Vedo le menti e le miserie, le felicità effimere e le codardie. Il fiume che scorre e non so dove vada.
Finiscono i tempi degli uomini, ma non delle pietre poggiate l’una sull’altra da uomini forti e sudati che con grande sforzo nel tempo mi hanno resa chi sono. Io li guardo, i tempi che scorrono lenti come l’acqua del fiume e non so dove andranno.
Tutto muta, è mutato e non resterà certo lo stesso. Io no. Sono qui da quasi trecentoventi anni, e altrettanti almeno mi si parano innanzi. Io ho tutto il tempo di stare a guardare quel bimbo che corre appena, malfermo sulle gambe, diventare ragazzo, poi adulto, poi vecchio, poi salma. Lo vedrò trasformarsi in un mucchietto di polvere e sarò qui quando i suoi figli, e i figli dei suoi figli, e poi ancora usciranno da ventre di donna e, dopo il tempo che Iddio ha loro concesso, non saranno più. In fondo, la quaestio è poi solo quella. Tutto cambia: la piazza, le case, le canzoni che cantano in strada, le meretrici appoggiate ai muri in penombra e i soldati. Tutto cambia. Cambiano preti e arcidiaconi, vengono e vanno cantando le lodi o bestemmiando sotto le tonache. Non è affatto importante. Da trecentovent’anni io guardo le case, la piazza che avanza o che si ritrae, osservo l’acqua del fiume, che non so dove va.
In tutto questo tempo, uno solo ha suonato per me, mi ha amata come se le mie volte di pietra fossero braccia, mi ha pensata come rifugio e sua casa. È in giro con i campanelli in testa: chissà a che ora torna, chissà se sta bene.
*Ce fut en mai, Francia, metà del XIII secolo
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