
Le storie superbe . SUPERBIA
Quella sera a Madrid
In 24 Luglio 2016 da Redazione Seven BlogIl racconto quarto classificato (ex aequo) di StorieSuperbe – L’Ira
di Gianfranco Monaca
Avevo vent’anni, forse ero pazzo. Ma non cattivo.
Venivo dall’Olanda, con in corpo il dolore di una delusione. Viaggiavo con una specie di guardaspalle che mio cognato mi aveva messo alle calcagna. Un bravo tipo, comunque. Aveva capito e stava zitto: quella donna ci stava, ma per me non era quello, è che me ne ero innamorato come un ventenne. Perdutamente, come si dice.
Di punto in bianco mi arriva un biglietto: ciao caro, è stato bello, da domani vado in ferie con mio marito. Così. Mi ritrovai in un deserto. Un cane bastonato. Cercai di ammazzarmi: non riuscivo a mandar giù nulla, da tre giorni.: temevano che gli morissi in quella stanza d’albergo, che sono sempre noie, e hanno chiamato un medico fidato. Pressione, tampone, siringa monouso, solite cose d’emergenza. Prendi questi antidepressivi. Cercate di farlo mangiare. Lo sentivo scendere le scale, ho strappato la confezione e ho inghiottito tutto. Il guardaspalle se lo aspettava e mi ha capovolto, mi ha fatto vomitare anche lo stomaco. Così non ti porto al pronto soccorso e non lo dico a tuo cognato. Era alto quanto me ma pesava tre volte, il giorno dopo strapazzandomi il necessario mi carica come un baule: Dove vuoi andare? All’inferno! Lì ci sei già, inventati qualcosa di meglio. In Spagna, dicono che è bella d’autunno. Andiamo in Spagna.
Forse l’aria del finestrino, forse il paesaggio magnifico, forse la fame che tornava piano, forse il compagno che mi teneva d’occhio, forse la stanchezza. Ero uno straccio. Ogni tanto mi svegliavo di soprassalto, con dentro una rabbia mortale. Non potevo dimenticarla. Non la odiavo, lei poteva fare quel che voleva, odiavo me stesso, una rabbia che non potevo sfogare con nessuno. Sentivo che lui mi guardava di traverso, mentre guidava. Odiavo farmi vedere con i lacrimoni in viso, come un adolescente. Mi davo un contegno. Scoppiavo in risate false all’improvviso. Odiavo tutti quelli che si scansavano quando attraversavamo i mercati rionali, con la loro aria annoiata o indaffarata. Ora ridevo e singhiozzavo senza ritegno. E lui non reagiva. Guidava.
Pagava con i miei soldi, mangiare e bere qualcosa. La dogana, la gente in vacanza, la Spagna, Cervantes, la polizia, il sole da morire in ottobre. Mocciosi, ragazzine, vecchi sulle panchine. Baccano. Deserto. Questa è Burgos? Dove andiamo? Madrid. Ho detto Madrid. Palme. Palme. Madrid.
Mi fa scendere. Come un baule. Lo odio. Questo è un buon posto. Ha visto il pieghevole turistico. Fortuna che c’è lui. Io non saprei muovermi. Lo odio perché non me lo fa notare. Tutto normale per lui. Certo, mi considera un buono a nulla, ha ragione. Sì, qui è un buon posto. Morire, dormire.
Dormire, forse sognare... C’è del marcio in Danimarca? L’olandese maledetta…no…non lei, sono io che… Quel gigantesco silenzioso compagno di viaggio solido come una roccia. Perché mi ha salvato la vita? Già, lui ha giurato che mi avrebbe riconsegnato indenne al cognato e sta facendo il compito. Non conto nulla per lui. E perché dovrei? È un uomo tranquillo. Ha lasciato moglie e figli per questo lavoro. È pagato per questo lavoro, è un uomo onesto. Un funzionario integerrimo. Un adulto, ha uno scopo nella vita. Piccolo, ma chiaro. Come mio cognato. Mi monta il sangue agli occhi a pensarci: odio questi adulti. Non voglio diventare un maledetto adulto. E poi ha un nome ridicolo: come si può avere un nome così ridicolo? Elìa. Un nome da profeta per un funzionario integerrimo senza fantasia.
Ci fa portare la cena in camera, anzi nell’anticamera. Ha preso un appartamentino privé in quell’hotel a cinque stelle. Meno male. Intuisce senza bisogno di spiegare. Ha invitato un viaggiatore simpatico, per non trovarci soli a cenare come una coppia in luna di miele col broncio. C’è pure un pesante candelabro d’argento massiccio per le cene intime, il massimo dell’eleganza. Un orologiaio, un gioielliere che gira i mercati d’alto livello, che parla tutte le lingue del mondo. Riempie di vita quel mortorio, racconta, racconta, mi piace sentirlo raccontare. Dove l’avrà trovato uno così? Guarda caso, abita in Olanda, forse l’ha fatto apposta per girare il coltello nella piaga.
Elìa mangia con discrezione, beve poco, non interferisce, è contento di vedermi interessato alla conversazione. Sempre presente a se stesso. Mi vede finalmente sonnecchiare, è ora di mettermi a nanna. Maternamente. Non vedo mia madre da dieci anni: l’accademia, il grand tour, tanto lei si è risposata. Ma che cosa crede di essere questo gorilla? Mi tratta come un bambino! Dice che uno dei suoi figli ha la mia età. Perfido. Mi vuol mettere a letto, mi passa una mano tra i capelli, come mia madre quando mi preparava per la notte. Un groppo in gola. Il pettine s’inceppa, tra quei rossi capelli arruffati da monello, per un nodo impercettibile. Schizzo in piedi, non ci vedo più, afferro il candelabro e glielo giro in faccia con un manrovescio da ammazzare un vitello. L’orologiaio mi blocca, un fiotto di sangue sulla tovaglia ricamata, Elìa mi urla qualcosa da quella maschera irriconoscibile e mi si avventa contro. Fulmineo. Ho una scimitarra nella giacca, faccio in tempo a farla scattare e gliela punto alla gola mentre l’orologiaio si mette in mezzo. Accorre il personale di vigilanza, tutto è finito senza chiamare la polizia, per il buon nome del locale. Medicano il ferito, che ha già recuperato il suo equilibrio, lo mettono a letto. Abbiamo camere comunicanti e l’orologiaio mi consiglia di chiudermi a chiave, per prudenza. Non chiuderò: se Elìa mi vorrà ammazzare avrebbe soltanto ragione.
Si vendicherà spesso, da piemontese falso e cortese, come dicono: conserverà per anni i fazzoletti inzuppati di sangue, e me li mostrerà più volte, una memoria più che un rimprovero.
Ricordi, Vittorio, quella sera a Madrid?
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