Le storie superbe . SUPERBIA
On-Off
In 22 Maggio 2016 da Debora BorgognoniLe giornate di pioggia sembrano arrivare improvvise per trascinarti in un turbine illusorio, alla fine del quale ti pare di essere finalmente pronto a conoscere il significato della vita. Quella leggera malinconia, quella sottile inquietudine che si prova a starsene dietro un vetro col naso appiccicato, cercando di cogliere l’odore lasciato dall’asfalto bagnato, ha un non-so-che di morboso, eppure di magnificamente eroico. Ed io sono così in questo momento: naso dietro un vetro, cui le gocce si attaccano fastidiose preannunciando altrettanti fastidiosi aloni. Cerco quell’odore di fresco, malinconico, che racchiude in sé un po’ tutto il senso dell’autunno.
Autunno. Non sarà mica una metafora, una patetica allegoria? Non è autunno per me, non ancora. Sono un uomo come tanti. Come tanti sono a metà strada. Metà non vuol dire autunno.
Otis e Orec sono nella loro stanza. Come al solito la loro compagnia è estremamente discreta. Silenziosa. Quasi impercettibile. Ci sono ma senza disturbare; sento di non essere solo, sento fortemente la loro presenza, eppure so di non poter pretendere più di questo. Mi ritrovo spesso a guardarli. A dire il vero, li guardo di continuo, li fisso, li osservo in modo quasi maniacale, cercando di cogliere un ricordo, una sfumatura non ancora notata, che so. Anche in questo momento mi sembra di averli entrambi davanti agli occhi. È come se la mia mente mi impedisse di scacciare la loro immagine; la lascia lì, ferma, riempiendo i tanti vuoti che ha creato negli anni.
Otis e Orec sono alti uguale e si somigliano parecchio, nonostante le differenze di incarnato. Otis ha un fisico asciutto e un seno appena accennato, capelli castani, lunghi e ricci, labbra carnose e occhi scuri. Ha una bellezza mediterranea e un bel colorito olivastro che la rende attraente e dona alla sua persona una certa profondità, un certo mistero. Orec è un ragazzone tutto muscoli, spalle ampie e addominali ben segnati, sguardo sfuggente e pelle chiara. I capelli sono biondi e cortissimi; ha un fascino nordico a differenza della sorella. La loro somiglianza sta tutta nei tratti. L’ovale del volto sembra disegnato perfettamente; fatte le misure e scolpito.
I nomi li ha scelti Kara. Voleva che fossero originali e allo stesso tempo semplici. In più era fermamente convinta che dovessero avere una certa assonanza, anche se io non ho mai capito cosa intendesse con questo. E non solo: siccome il suo nome, Kara, era composto da quattro lettere, anche i nomi dei ragazzi dovevano averne quattro. Con tutti quei ragionamenti, dopo un po’ non riuscii più a raccapezzarmi e lasciai decidere tutto a lei, come al solito.
Non che Kara fosse una donna prepotente. Lei era risoluta. Con una donna così al proprio fianco, a un uomo può succedere di precipitare in un vortice di annichilimento. Non è un fatto di così poco conto, insomma bisogna considerare questa evenienza, prenderne atto e accettarla. Perché in fondo il fascino irresistibile di Kara stava proprio in quel suo modo cinico di affrontare la vita. Lei sapeva rischiare, prendersi gioco del destino e aggredirlo. Questa era Kara, mia moglie.
Non so quando abbia cominciato a farlo anche con me. A deridermi, a umiliarmi sottilmente intendo. A trattarmi con sufficienza e a farmi sentire vigliacco di fronte al mondo, incapace di imporre la mia volontà. Inutile, ecco, inutile. C’è stato un momento però in cui io l’ho capito. Tutto all’improvviso mi è apparso chiaro, elementare. Ho paragonato quel giorno alla scoperta della matematica: tutto da allora è cominciato a filare, le somme mi restituivano sempre lo stesso risultato, anche invertendo i componenti. Ed io ero rimasto solo.
Sono alla finestra da almeno un’ora. Pioggia. Batte il tempo e riordina le idee.
«Otis, Orec! Su, avanti ragazzi, venite con me in soggiorno, sentite che fresco, e poi questa pioggia… sembra poesia. Sì, pura melodia poetica».
Tum, tum, tum. Il suono sincrono dei loro passi mi appare sempre un po’ minaccioso. Generano nel mio corpo brividi involontari. Anche loro hanno potere su di me. In questi momenti mi accorgo che in fondo Kara non aveva del tutto torto. Forse il suo intento era solo quello di spronarmi, di aprirmi gli occhi sul mondo, sui suoi paradossi e sulle sue bellezze. Lei era un’artista, io un matematico. Lei era aperta alle emozioni, io ottuso nel mio personale vagabondaggio. Per lei era fondamentale scoprire se stessa attraverso gli altri. Per me la scoperta deriva da un fattore esogeno, dalla perfezione delle forme, degli eventi, delle leggi che regolano la natura. Quando i numeri combaciano, nulla deve più essere spiegato. Il fatto di amare lei, proprio lei, non doveva avere una particolare motivazione: era così, un calcolo matematico del destino. Non capivo perché fosse così necessario dare un senso all’amore. E ora eccomi qua, nascosto nelle mie paure, a cercare un po’ di compagnia in un pomeriggio d’autunno desolato e stanco.
Otis e Orec sono apatici. Avranno preso un po’ da me, mi dico. Otis è leggermente spettinata e mi guarda con i suoi occhioni profondi eppure spersi. Orec sembra sempre guardare lontano. Ti sfugge ovunque, pur rimanendo ancorato su quelle gambe forti e lunghe anche per ore senza dire o fare nulla.
Sorrido.
«Otis, ti prego, preparami un caffè. Quella cremina, guarda, non ho ancora capito dove hai imparato a farla», chiedo in tono quasi supplichevole.
«Ricevuto», risponde lei in tono assente.
Mentre Otis raggiunge la cucina mi avvicino a Orec, gli circondo le spalle col mio braccio e mi perdo in uno slancio di impacciata affettuosità. Ma lui stenta a ricambiarlo e io mi sento incredibilmente svigorito. Mi impongo di non essere patetico e mi raddrizzo in un istante. «Orec, sai, non è sbagliata l’emotività in un uomo. Forse tu non puoi capire, forse parlo a vanvera, ma sono convinto che un uomo deve saper piangere a volte, deve potersi lasciare andare, deve mostrare la propria debolezza. Riconoscere queste cose significa anche poterle metabolizzare, e poi accettare, infine risolvere o conviverci. Orec, non sto dicendo che tu debba cambiare. No. Forse parlo solo per me stesso».
Orec annuisce, dubbioso.
Il caffè è pronto e Otis lo lascia bere solo a me. Due cucchiaini di zucchero e il primo caffè uscito dalla moka sono diventati una crema perfetta e io non trovo differenza con l’espresso italiano che fanno al bar in Plaça Major.
Mi siedo sul divano e lo gusto piano, soffiando sulla tazzina, mentre la pioggia continua a lanciare il suo suono smanioso sui vetri delle finestre. Capisco la loro impazienza perché rimangono ostinatamente in piedi. Anzi, in posa plastica direi. Allora io smetto di bere. Poso la tazzina e comincio a osservarli, di nuovo, daccapo.
A guardarli sembrano veri. Cos’è la carne in fondo? Un cumulo di atomi comandati da un sistema. Non trovo differenze tra me e loro. «E va bene, a riposo, ragazzi, domani vi aspetta la vostra prima dimostrazione». Parola: on. Controllo emozioni: modalità attiva. Lascio tutto in stand-by. Mi piace quel piccolo led lampeggiante.
Debora Borgognoni è editor, blogger, fotografa e scrittrice. Ha pubblicato quattro libri:
- Lo scrittore emergente in Italia. Analisi di una subcultura nella comunicazione mediale – saggio critico, LibreriaUniversitaria Edizioni, 2017
- Tu non spegnere le luci – romanzo storico, Temperino Rosso Edizioni, 2016
- Io e il Dottor Zeta, la ragazza Ics ed io – romanzo, Montag Edizioni, 2013
- Caro diario… Piccole parole appese al muro – silloge, Albatros Il Filo, 2011
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