DiarioXY . LUSSURIA
Forse, un giorno, sulla luna
In 21 Settembre 2019 da Chiara MenardoIl rumore delle seggiole che strisciano sul pavimento. Il tepore liscio del legno del tavolo sotto le dita. La pausa eterna, inevitabile: il rumore della nostra fine è quello di una bolla di sapone che scoppia.
Non sono riuscita a risalire al momento preciso in cui è successo. Il quando, l’istante, quel singolo gesto che ha dato inizio a tutto: il sassolino che si è sfilato dal muro e ha aperto la prima, minuscola crepa che, giorno dopo giorno si è allargata.
Fino a quando la diga è collassata in silenzio.
Eppure me lo domando spesso. È un pensiero che torna, che insiste da mesi e che ormai ogni giorno che passa si fa più ozioso, si sta trasformando in abitudine, come il tè del mattino o lo spazzolino prima di andare a dormire. Una domanda meccanica che non sembra volere risposta. Così è stato, così doveva andare, ci sono stati segni e sogni. Così sarà.
Quando? Perché?
Anche adesso, seduta davanti a lui, alla sua maglia verde macchiata di pittura, allo sguardo pieno di domande che si nascondono dietro al piano del tavolo, continuo a chiedermelo. Anche in questo preciso momento in cui gli sto dicendo che tra noi è finita.
Non c’è più nulla da fare, parole da dire. Quello che doveva essere è stato: le colpe, le omissioni, i silenzi. Adesso si è fatto tardi per pensare a un rimedio.
Gli ho detto di un altro, ma non è questo che importa. Il granello di sabbia è scivolato via tanto tempo fa e si è portato via tutto: la dolcezza, gli occhi che insieme guardavano oltre, i letti sfatti e rifatti, la biancheria sporca messa a lavare, stirata e riposta, le cene tarde raffazzonate con quello che si trovava in dispensa, le passeggiate ridenti per mano nel parco. Tutto scivolato in un album di fotografie troppo presto ingiallito, emozioni che si sono staccate senza causare dolore, come un cerotto bagnato. Ora galleggiano da qualche parte, disperse e lontane.
Che senso ha rimanere immobili ad accarezzare il piano del tavolo, quando quello che è stato è così distante che ormai è diventata un’ombra che scolora sul muro?
Dove potremmo andare, restando fermi qui?
Non riesco a dormire se sento il suo respiro al mio fianco, mi appiattisco a un lato del letto perché non mi tocchi. Non è così che doveva andare, non è per questo che abbiamo scelto il divano, i piatti, la vita insieme e i film da vedere.
I libri, i pennelli, la mia biancheria e un corpo estraneo in questa casa che era nostra e adesso non più, perché noi non siamo più noi, ci muoviamo come due criceti in una gabbia di vetro, divisi dal baratro. Quello che io provo per lui non è più, quello che lui – forse – prova per me non è sufficiente per tutti e due.
Non lo so cosa voglio. Possiamo restare amici? Possiamo vederci, sentirci ogni tanto e parlare? Così, qualche volta, solo per fare due chiacchiere. Nulla di che, per non lacerare del tutto la tela tenuta ormai da un unico filo. Così, per tornare a far visita, ogni tanto, a tutto quello che è stato. Alle passeggiate e al ritratto, a quello che lui sa di me che io stessa non vedo e non ho mai visto.
Anche se no, forse no, non è un’idea buona, questa.
Perché io sono cambiata e lui no, ma non durerà molto: appena si alzerà dalla sedia per fare i bagagli, quando si chiuderà la porta della nostra vita alle spalle, anche lui sarà diverso, non sarà più l’uomo che è ora.
Così come anch’io sarò diversa. Libera? Sola? Felice? Senza capo né coda? Non so. Non posso saperlo finché non succede.
Tra un’ora saremo diversi, fuori dalla gabbia di vetro, e non ci sarà più alcun modo per tornare indietro, a quello che era, che siamo in questo momento. Altri, sconosciuti, separati da una diga crollata da qualche parte in un istante passato che non riesco ancora ad individuare.
Fuori la pioggia continua, si è alzato senza dire una sola parola. Non un urlo, non ha rovesciato la sedia con rabbia, ha preso la sacca e ha cominciato a riempirla con quattro cose buttate a casaccio.
Le scarpe, il giaccone, uno spazzolino, i suoi libri, un grosso quaderno e io rimango seduta a guardare il legno del tavolo passando i polpastrelli sul piano, io e il mio maglioncino leggero sopra la sottoveste bianca che spunta dalla scollatura, e mentre parlavo lui non spostava lo sguardo dalla mia spalla, dalla clavicola, da questa pelle che una volta amava le sue mani addosso e che ora lo spinge via al solo pensiero.
La pioggia sui vetri, lo stillicidio di un addio silenzioso che non ha spiegazioni, per lui e per me: un altro letto è la conseguenza, non la causa della fine.
Striscia i piedi sul pavimento, le matite e i fogli da disegno, la sacca piena delle sue cose, la tenda e il sacco a pelo appoggiati vicino alla porta, monumenti al nostro addio imminente. Non sa, non so dove andremo.
Adesso non ha alcuna importanza. Forse, dice, andremo tutti sulla luna.
Può essere. Sulla luna o su Marte, oppure in Botswana. O solo quattro strade più in là. In ogni caso, una cosa è sicura: non ci andremo insieme.
Si chiude la porta alle spalle, scende le scale. Mi alzo e vado alla finestra. Tra le gocce di pioggia lo guardo caricare la macchina, salirci su e partire.
Tutto è cambiato.
Il libro…
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Titolo: L’assassinio del commendatore, Libro primo – Idee che affiorano
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Autore: Murakami Haruki
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Editore italiano, collana, traduttore, anno: Einaudi, Supercoralli, Antonietta Pastore, 2018
Chiara Menardo ha pubblicato La mareggiata in un barattolo per Harper Collins Italia, collana eLit, 2019
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