Le storie superbe . SUPERBIA
Un buco nero
In 10 Aprile 2016 da Redazione Seven BlogIl racconto secondo classificato di StorieSuperbe – L’Avarizia
di Chiara Menardo
Lo osservo mentre parla, teso e sincero, seduto sul muretto a strapiombo sulla collina che guarda la valle di vigne. Ha gli occhi tristi, sta cercando di farmi capire che così non si può andare avanti, che ormai non ci siamo più, l’una per l’altro; che le nostre strade sono diventate due sentieri distinti, ciascuno diretto verso il suo bosco lontano, proprio come quelle colline là in fondo, che partono insieme alla base per poi allontanarsi.
Dice che sono come una diga, e lui si sente l’omino ai piedi del muro, secco e assetato, anche se è così vicino all’acqua; che sono come le valvole dello stomaco, lascio entrare le cose ma non permetto a nulla di uscire. Che concedo me stessa con un contagocce dal tubicino sempre più piccolo ma, per contro, chiedo e accumulo, dentro e fuori di me. Cose e sentimenti, li tratto nella stessa maniera, dice lui. Non lascio, trattengo, prendo senza saper dare.
Gli dico che vive con il bilancino del dare e avere, lui. Mi guarda con gli occhi stanchi e sgranati, sbotta con un “Ma stai scherzando?”: incredulo, scuote la testa. Allarga le braccia. I suoi movimenti sono spreco di spazio e di energia, di cui mi approprio io, perché nulla vada perduto. Assorbo il suo gesticolare, come una spugna. Mio il movimento, l’aria, il suo sguardo largo. Dentro, swoosh, preso.
Le mie unghie entrano a forza lasciando mezzelune bluastre e profonde nel monti di Venere e della Luna: trattengo la rabbia, lo stupore, l’amore che provo. Mio.
Stringo le mani e gli occhi, inspiro e risucchio le guance, le labbra ridotte a fessura, serrate, all’indentro. Contraggo le gambe, lo stomaco, i muscoli, rigida e compressa, solida come granito nella mia porzione di spazio.
Controllo e dosaggio: trattengo, implodo. Sono come un buco nero: assorbo, da me non esce più nulla.
Ho imparato negli anni il concetto di “Mio”: come acquisirlo e amministrarlo, quanto e cosa dare e, soprattutto, cosa volere. La chiamano parsimonia: di cose, di emozioni, di soldi, di sentimenti, aggiungo io. Ho una scorta nutrita di cose, di soldi impilati in bell’ordine sul conto corrente, di piccole finestre chiuse che apro sul mondo quando proprio non posso fare altrimenti. Sono parsimoniosa, e allora?
Cose, energie e sentimenti sono beni finiti, non ce n’è in eterno per tutti: anche il sole un giorno si spegnerà e con lui si fermerà il vento, l’acqua del mare smetterà di scorrere, prima ancora finiranno il petrolio, le lampadine, la plastica. Questo accadrà. Lo stesso per l’affetto, l’amore, l’odio: prima o poi finiscono ma io non rimarrò mai senza, perché conservo, conservo tutto, in prospettiva, per non restare mai senza.m
Conservo da sempre, da quando mi regalavano le monetine e invece di spenderle in gomme da masticare e nastrini colorati per le trecce le tenevo in un barattolo vuoto della marmellata nascosto per bene in un angolo dell’armadio, sotto la colonna di maglie. Mi aveva detto la nonna di fare così: lei aveva visto la guerra e mi insegnava. Raccontava del niente, e della gioia che provava nel conservare le croste di pane e rosicchiarle, da sola, la notte, senza nessuno che la disturbasse, le chiedesse di dividerle, di darne un pezzetto.
Amo quell’avere segreto, solo per me, il privare e privarmi per godere il possesso, nella dolcezza del mio cantuccio segreto in cui sfioro tutto ciò che ho conquistato, accumulato, trattenuto.
Dalle monetine, alle matite di scuola mai prestate a nessuno, ai sorrisi contati: se fossi stata gentile poi mi avrebbero chiesto la gomma, e poi la gomma non sarebbe tornata, ed era la mia, di gomma. Le gomme colorate mi hanno insegnato, tanto quanto la nonna, a risparmiare sulle parole, sulle cortesie, a concedere me stessa a pezzetti piccoli, solo se proprio devo, solo se ciò che mi torna è maggiore di quello che do.
E adesso lui, che gesticola fendendo l’aria della sera – aria che prima o poi finirà – e mi accusa di non avere mai messo me stessa fino in fondo nella nostra storia? Che avrei dovuto fare? Lui sciupa e spreca, lui vive gesticolando e spalancando gli occhi, io no. Io amministro quello che è mio in modo da non rimanere mai senza.
Mi sta dicendo che vuole andar via, via da me? No, oh, no, non può proprio. Lui è mio, non può, non è contemplato, permesso, non posso cederlo, per nessuna ragione.
Unghie che premono contro i palmi delle mani, stringo le labbra e mordo le guance. Trattengo il respiro. Trattenere, sì, tenere e trattenere. Non posso mica lasciarlo andare così, lui è mio. È il momento di fare qualcosa, non posso, non può, non è consentito, non lo permetto. Contraggo le braccia, le alzo.
Lo spingo oltre il muretto su cui è seduto, con tutta la forza che ho. Lo osservo mentre barcolla e prova a tenersi, ma lui è sempre stato una spugna, è morbido e cedevole, non come me che sono un monolite in granito nella mia porzione di spazio.
Spalanca ancora di più gli occhi e le braccia, non grida nemmeno, è troppo stupito. Un tonfo.
Mi sporgo un attimo a osservarlo, al fondo della scarpata: è diventato un pupazzo. Anche adesso, con la testa scomposta rivolta alla valle, con l’aureola rossa, scura di sangue che gli si allarga sotto il capo spaccato, ha le braccia spalancate come a offrire, ancora e ancora.
Gli volto le spalle, vado verso la macchina, verso casa: come la nonna con le croste di pane, potrò rosicchiarne da sola il ricordo, ogni giorno, ogni notte. Mio.
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