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Il pudore tra pensieri, parole, opere e omissioni
In 9 Febbraio 2017 da Attilia Patri DPIl pudore tra pensieri, parole, opere e omissioni ovvero dove stiamo andando con il finto moralismo, l’ascolto di comodo e la cecità selettiva.
Tre notizie di cronaca molto diverse tra loro ma con un denominatore comune, un brusio di fondo che in un modo o
nell’altro ha suggerito e veicolato risultati.
BIELLA: allontanata dall’ufficio postale solo perché stava allattando suo figlio di appena tre mesi. È quanto accaduto a una neo mamma che, mentre appartata in un angolo dell’ufficio stava nutrendo il suo bambino, si è sentita dire dal direttore che all’interno dei loro locali l’allattamento al seno era vietato e consentito solo con il biberon.
Qualcosa di analogo era successo qualche mese fa a Bologna, a Palazzo d’Accursio, a una ricercatrice universitaria che lì doveva intervenire in un convegno contro la violenza di genere. Alla domanda se poteva allattare la propria figlioletta le è stato risposto di no perché vigeva il “divieto di introdurre cibi e bevande”. No! Applicando alla lettera e mettendo sullo stesso piano latte materno pret a porter, in mammella per intenderci, con la coca cola in lattina e il sacchetto delle patatine. Una risposta da vignetta umoristica applicata al reale in una giornata in cui si doveva parlare “contro la violenza di genere”. Direi quasi un quadretto apocalittico e surreale.
Non tanto meglio è andata alla mamma che, in maniera poco educata, è stata allontanata da un locale sul lungomare di Arma di Taggia con la motivazione che il gesto dell’allattamento era indecoroso e infastidiva gli altri clienti.
Sembra che nel nostro Paese, periodicamente, scatti la polemica “allattamento in pubblico si o no?” e il web si scateni tra chi sostiene che è la cosa più naturale del mondo e chi invece, infastidito, non ne vuole nemmeno sentir parlare.
C’è chi sostiene che non sia necessario andare per bar, o più genericamente in giro, quando si ha un neonato da allattare e che se si desiderava essere libere tanto valeva non fare figli. Non mancano i bigotti che disapprovano tale pratica in pubblici esercizi perché la scena apparirebbe indecente. C’è chi consiglia un’organizzazione tale da non far coincidere gli orari dei pasti del bambino con l’uscita (di sicuro questo non ha figli perché altrimenti saprebbe che c’è ben poco da organizzare e, il più delle volte, si fa come si può) e chi, invece, suggerisce l’uso del biberon per dare il proprio latte tirato in precedenza.
In generale sono per lo più commenti e consigli di bassa lega che trasudano un ingannevole senso del pudore, uno scandalo al sole da additare e boicottare in nome di una falsa moralità; giudizi e pregiudizi che cancellano, con poche
righe, secoli di Storia dell’Arte con le sue rappresentazioni di figure femminili e Madonne che allattano. Pareri gratuiti che autodenunciano la totale non conoscenza della natura di un normale allattamento che non è solo un modo per nutrire ma una forma di accudimento più complessa, che non ha orari così regolari e che non può essere delegata, se non per precise indicazioni, a sostituti meccanici del seno.
Una delle cose più naturali al mondo diventa una cosa impresentabile, da nascondere mentre tutto intorno, basta alzare un po’ la testa, nei cartelloni pubblicitari e un po’ ovunque è un trionfo ammiccante di nudità più o meno esplicite. È evidente che, a questo punto, limitare la funzione materna diventa un paradosso.
Nel nostro Paese manca una legge chiara che autorizzi o meno l’allattamento al seno in luoghi pubblici. La legge si renderebbe necessaria perché lasciare il tutto alla sensibilità delle persone apre la strada ad un mare di equivoci e incomprensioni. Per questo dagli episodi che si sono succeduti è partita una petizione per chiedere una legge specifica che tuteli il diritto materno di scelta; a oggi sono state raccolte oltre 26.000 sottoscrizioni mentre la ministra Madia ha annunciato una direttiva per consentire l’allattamento nei pubblici uffici commentando in un tweet che “in alcun luogo dovrebbe essere vietato l’allattamento. Subito direttiva per tutta la pubblica amministrazione”.
In attesa che tale promessa abbia un riscontro positivo, senza ombra di smentita, possiamo dire che le persone di buon senso ritengono che una madre che allatta fuori casa non dia scandalo, non commetta atto osceno, non vìoli alcuna legge, non possa essere ritenuta esibizionista (e se lo è, non è certo per l’allattamento). Oggi che gli hotel aprono sempre di più le porte a cani e a gatti non si capisce perché l’atto materno venga considerato disdicevole. Inutile fare il processo alle intenzioni e soprattutto non può essere cacciata via da nessuno, né essere additata come una svergognata. Le esigenze primarie restano quelle del bambino; chi si sente infastidito non guardi, si giri dall’altra parte e non rechi ulteriore fastidio.
VASTO: colpevole di incidente senza aver bevuto, senza droghe assunte, senza andare veloce; un semaforo rosso saltato non si sa ancora bene perché e la fatalità dell’incrocio con la moto e il destino di una donna; la donna di un altro.Un’intera città contro, una campagna diffamatoria e pesantissima contro, tantissimi indici puntati contro. Emarginato. Tagliato fuori dal contesto sociale.
Ancora prima che un regolare processo in tribunale emanasse un giudizio e una pena espiatoria, era scattato il processo della gogna che tutto fomenta e aizza e nelle città di provincia assurge a ruolo di verità assoluta e inappellabile. La provincia e le solite strade, il solito centro e i soliti bar dove è facile incontrarsi e gli sguardi, spesso, non si possono non incrociare, quasi a sfida, ciascuno con le proprie emozioni, ciascuno con il proprio senso di perdita e di vuoto, uno sguardo che cerca e uno sguardo che non vorrebbe trovarsi lì in quel momento ma che resta alto perché abbassare gli occhi verrebbe letto come ulteriore prova di colpevolezza di un qualcosa che mai ci si sarebbe andati a cercare e dal quale non si può fuggire, prendere le distanze, cancellare, porre in qualche modo rimedio. Due incubi che si incontrano e si guardano specchiandosi, riflessi uno nell’altro: chi ha tolto e chi non ha più. Quasi un meccanismo fin troppo semplice di un Principio di Fisica più complesso, il Principio di Causa-Effetto.
Due anime smagrite o troppo piene che si incrociano sul filo del rasoio della ragione: basta un niente e scattano meccanismi incontrollabili. Vite semplici di ragazzi di provincia che, da un certo momento in poi, tanto semplici non sono più. Due ragazzi e intorno tutti gli altri. Il contesto che avviluppa persone e accadimenti; un contesto che non si fa, in necessità, accogliente delle ragioni di entrambe le parti, che non si fa neutrale per placare animi, mezze verità, il “si dice in giro che…”. Un contesto che non si ammanta del pudore del silenzio nell’attesa che intervenga un super partis a mettere ordine ma, al contrario, organizza fiaccolate, appende striscioni, crea pagine Facebook con l’intento di attaccare e denigrare l’investitore, alimenta il fuoco del senso precario di tutela da parte della Giustizia. Un contesto che si schiera da una parte, crea appoggio, incitamento, cappa di protezione a una mente fortemente provata da un lutto impossibile da elaborare e offre, in modo del tutto gratuito, giustificazione e alibi per una “giustizia fai da te” da borghese piccolo piccolo che appare come l’unica soluzione possibile, gratificante per il proprio personale e autonomo tribunale che niente si aspetta dai giudici preposti e da una Giustizia che, oltre che lenta, sembra a volte poco efficace nel valutare reati e relativi esborsi di pena.
Contesto che, quindi, giustificando, placa sete di vendetta e trasforma un Abele qualunque in un Caino vendicatore supportato da una certa “complicità ambientale” fatta dai cori di dalli al colpevole che è in libertà e diventa claque di incitamento al peggio.
Claque che spinge negativamente è la radiografia di un paese eccitato e imbruttito dalla rabbia sociale, morboso e ammorbante, solidarietà miserabile di concittadini che, nel mettere buone intenzioni al peggio, vedono l’unica alternativa appagante realizzabile. Una folla fanatica che, sangue su sangue, ancora applaude e sostiene Caino.
Un po’ di pudore, un freno morale nell’esaltare il mito della giustizia privata, nell’evocare l’amore come scusa armante e i buoni sentimenti che autorizzano e legittimano a scavalcare lo Stato, i tribunali, i processi avrebbero fatto, forse, la differenza: un giudice e un boia in meno. Una folla più composta, meno sguaiata, eccessiva, osannante e le cose potevano prendere una piega diversa. Oppure no. A questo punto, però, la follia sarebbe stata solo individuale, non collettiva; che, di fatto, è la più pericolosa.
VENEZIA: veniva dal Gambia e ha scelto Venezia come meta ultima del suo viaggio di speranza. Aveva 22 anni, un
nome, una dignità, un tratto somatico scuro che apre sempre alla domanda di circostanza è cioè se veramente stava scappando da qualcosa o era solo uno che approfittava di situazioni quanto mai caotiche. Aveva preso un treno a Milano ed era sceso alla stazione di Santa Lucia e sui gradini della stazione, tra il via e vai delle persone, aveva raccolto cose e pensieri che non dovevano certo essere dei più allegri se, da lì a poco, si sarebbe alzato e lanciato nel Canal Grande senza saper nuotare; anzi, proprio per questo. Gettarsi per affogare. Stop. Fine della storia. Con determinazione. Di domenica. Venezia mai vuota di gente locale e di turisti, figuriamoci di domenica, con un sole tiepido quasi da fuori inverno.
A Venezia, nello scenario di bellezza italica unico per eccellenza e dove tutto viene riflesso nell’acqua e nell’acqua si scompone, dove tutto merita di essere fotografato e ripreso, trattenuto negli occhi e nei dispositivi tecnologici per immortalarne la memoria. Venezia affollata di turisti e vaporetti in un incessante su e giù per canali, ponti e calle. Un
andare avanti e indietro, in largo e lungo perenne perché il tempo a disposizione è quello che è e le cose da fare e da vedere sono tante.
All’improvviso il balzo di un qualcuno qualunque nel canale anima di vita altrui le riprese dei cellulari che continuano a filmare tra gente che grida, gente che ride, qualcuno che dice “questo è scemo” e un altro “Africa”. Morte pubblica e muta, se vogliamo possiamo anche definirla plateale, da una parte che si contrappone al rumore di chi, dall’altra parte, guarda.
Da un vaporetto vengono lanciati dei salvagenti ma il giovane evita ogni tentativo di afferrarli, con le braccia tese in alto quasi a impedirsi un qualche tentativo di bracciata che lo possa mantenere a galla. Posizioni del corpo coerenti perché così si fa se si vuole veramente morire annegati e non si sta solo facendo scena per attrarre attenzione su di sé, sopra ad una situazione con il secondo fine di ottenere quella visibilità che può creare “il caso” e far derivare qualche vantaggio, qualche benefit di vita più decente.
Nessuno tra i presenti si è buttato nel tentativo ultimo dì salvarlo. Nessuno si è incaricato di fare la parte dell’eroe. La sua fine silenziosa ha sollevato un gran polverone perché l’impressione che ne è derivata è qualcosa che rimanda al trattare da negro di Storia neanche tanto lontana, al lasciar morire uno scarto umano. Nell’ottica del realismo, che non ci sia stato, tra gli astanti, nessun aspirante martire può essere umanamente comprensibile perché per salvare qualcuno che non vuol farsi salvare, che non collabora, in acqua, in inverno, o si ha un coraggio da leone oppure si è soccorritori esperti perché, diversamente, si rischia la vita in due. Rimane, comunque, galleggiante e sospesa la domanda: “forse si poteva fare qualcosa di più?” rivolta ai marinai dei vaporetti. Una frase un po’ tardiva come una eco di coscienza un po’ rallentata e assopita e, di eco in eco, si arriva alla risposta di chi dirige l’Azienda che gestisce i natanti pubblici: “È stato rispettato il protocollo, nessuno si doveva buttare”. Frase esorcizzante e liberatoria, scritta nel contratto di lavoro; motivi di sicurezza. Liberatoria quanto? Non si sa.
Allora se niente si è potuto o voluto fare per un tentativo di salvataggio, almeno si poteva alzare il sipario del pudore a zittire frasi xenofobe, razziste, e spegnere riprese di video che altro non sembravano se non l’occasione di adrenalina da cogliere al volo, da portare a casa come souvenir insieme alla gondola in miniatura e chissà a quanta altra paccottiglia.
Il ragazzo voleva morire e quasi tutti si sono lavati la coscienza perché una libera scelta non si nega mai a nessuno, tanto meno ad un reietto che, secondo il comune “senso di altruismo”, poteva starsene a casa sua e, comunque, sarà uno in meno da sfamare e aiutare.
Forse la giornata di “Africa” sarebbe cambiata, avrebbe potuto trovare la consolazione per vivere un giorno in più se, quella mattina, avesse incontrato una persona con del tempo da spendere con lui per quattro parole e un caffellatte caldo.
Ci fermiamo qui. Possiamo anche stare ad ascoltare giustificazioni ma rimaniamo sempre in attesa che, dal brusio, escano risposte.
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