INVIDIA . Lector In Invidia
Di bambini e dintorni
In 16 Marzo 2017 da Attilia Patri DP6 marzo 2017 – L’Italia fa sempre meno figli toccando, nel 2016, un nuovo minimo storico mentre la popolazione, progressivamente e inevitabilmente, invecchia e quasi un quarto dei residenti ha più di sessantacinque anni.
L’Istat ci ha contati e dopo opportuni confronti, calcoli, varianza, medie ponderali, diagrammi, ha stilato il report sugli indicatori demografici che, in cifre, si riassume così: 474mila nascite nello scorso anno contro le 486mila del 2015 che, a sua volta, era già in deficit rispetto all’anno precedente; insomma, una progressiva catena numerica al ribasso in corsa su una parabola in fase discendente. Per differenza esattamente 12mila unità in meno dove unità sta per culle vuole, bambini, futuro. La fotografia di un Paese che, se da un lato vede allungarsi le aspettative di vita (uomini 80,6 anni; donne 85,1 anni), dall’altro sembra non garantire un sufficiente e regolare ricambio generazionale e poco consola sapere che non è solo un fenomeno italiano ma riguarda quasi tutti i Paesi avanzati.
Numeri che se ascoltati attraverso i vari canali audiovisivi ci si accorge che vengono comunicati con un tono e un’espressione tendente all’allarmismo, un quasi velato j’accuse, una specie di richiamo alla responsabilizzazione civica; responsabilizzazione che, il più delle volte, si rivolge al femminile in quanto elemento di genere atto alla portata a termine, ma ancor prima alla scelta, di un concepimento o meno. Questa, almeno, l’impressione perché, anche se l’Italia è un Paese familista da sempre, l’elemento figli sembra sempre un problema legato più alle gonne materne che una vera condivisione genitoriale di coppia, salvo le dovute eccezioni per quei padri che, spontaneamente, si rendono partecipi e attivi in ogni aspetto dell’accudimento.
Numeri che non ci sorprendono neanche più di tanto dal momento che, il nucleo centrale del calo demografico, si configura come risultato atteso e favorito dalla mancanza della sommatoria di tanti elementi, tutti fattori fondamentali, ognuno condizione sine qua non che ben conosciamo e che rende sereno un progetto di vita catalizzato su un figlio. Una spirale di fattori che si avvita su se stessa: la crisi, la recessione, la ricerca spesso senza esito di un lavoro stabile perché non si riesce più a contare su un solo procacciatore di risorse, il senso di precarietà, la carriera, la mancanza di servizi (in Italia in politiche e servizi alle famiglie si spende solo il 2,3% della spesa nazionale), la conciliazione faticosa se non impossibile tra casa e lavoro, una società che non si è adattata alle madri lavoratrici né dentro le famiglie né dentro il mercato del lavoro.
La percezione è che sui figli ci sia un iper investimento che si accompagna anche a tanti timori: non essere buoni genitori, non poter provvedere alla loro formazione scolastica e garantirgli, nel possibile, un buon futuro, non sentirsi all’altezza. Si è assistito in questi ultimi cinquanta/sessant’anni ad un radicale cambiamento e ad una versione di tendenza: se una volta per le vecchie coppie, magari economicamente non messe molto meglio di queste attuali, i figli rappresentavano un riscatto (specie se si riusciva a farli studiare, ad aiutarli a conquistare una soddisfacente posizione sociale), oggi le persone si riscattano solo da se stesse attraverso le esperienze della propria vita.
Ad influire su una bassa natalità incide anche la precarietà della coppia: la sessualità, da un pezzo e per fortuna, non ha più un fine riproduttivo; è cambiato il modo di stare insieme e si ha una maggiore consapevolezza: raramente, oggi, una donna tra i venti e trentacinque anni dice di aver avuto un figlio perché le è capitato ma, al contrario, la maternità è oggetto di profonda riflessione sulle valutazioni di opportunità temporali, sentimentali, lavorative, abitative, psicologiche.
Anche quando la coppia c’è, la stabilità economica pure, si tende a posticipare perché ci si sente giovani per molto tempo e dell’età c’è una percezione confusa anche se il tempo, però, non smette di passare e incide sui tassi di fertilità
toccando il 25% delle coppie e si allungano, per alcune di loro, le liste d’attesa per la procreazione assistita; altre non la cercano neanche: sono le coppie per le quali l’obiettivo è compensarsi l’un l’altro, la finalità della relazione è la relazione stessa; quando l’orologio biologico si fa sentire non perdono il senso di famiglia per una nascita mancata: si è bastati a se stessi e già quello è un traguardo.
6 marzo 2017 – “Solo perché non accade qui, non vuol dire che non stia succedendo”. Bambini siriani, oggi, dal rapporto Ferite invisibili di Save the Children Italia: “Ci sono bambini che sognano di morire per poter andare in paradiso e avere così un posto dove poter mangiare e stare al caldo o che sperano di essere colpiti dai cecchini per arrivare in ospedale e magari poter scappare dalle città assediate”.
Non c’è tregua, non c’è pace, non c’è più un posto sicuro dove rifugiarsi, non c’è pietà per nessuno visto che anche gli
ospedali vengono bombardati e anche l’andare a scuola, l’andare in un luogo in cui dovrebbero sentirsi protetti non dà garanzia di tranquillità: in un Paese fatto di violenza quotidiana, di miseria, ai bambini viene tolto anche il diritto di giocare e di imparare; costretti a vivere tra le macerie, spesso senza cibo e senza acqua per intere giornate, le loro sono storie di un’infanzia negata e di un futuro incerto.
3 milioni di bambini sono nati e cresciuti in guerra e, a sei anni dall’inizio del conflitto che si è trasformato in una delle più grandi crisi umanitarie dalla Seconda Guerra Mondiale, 5,8 milioni hanno bisogno di aiuto: un bambino su quattro rischia conseguenze devastanti sulla salute mentale; due su tre hanno perso qualcuno che amavano o sono rimasti feriti a causa del conflitto; molti quelli che sono senza la casa crollata sotto i bombardamenti. Vittime incolpevoli e prede di eventi altamente negativi che hanno portato la maggior parte di loro a vivere una condizione di stress tossico che gli compromette, come un veleno a lenta cessione, in modo permanente, il presente e il futuro: cicatrici per le quali non esistono punti di sutura.
Incubi, crisi di panico, enuresi notturna, paura del buio, delle bombe, dei rumori improvvisi (fosse anche solo quello di una porta sbattuta dal vento) della perdita della famiglia sono il bagaglio di bambini ripiegati e accartocciati su se stessi che vanno a letto affamati. Bambini che non riescono più a parlare, più violenti, e che commettono atti di autolesionismo che sfociano spesso in tentativi di suicidio e, negli adolescenti nell’assunzione di alcol e droghe. Bambini cresciuti troppo in fretta, costretti a diventare adulti per potersi garantire una parvenza di vita, o meglio, di sopravvivenza; bambini forzati al reclutamento, inizialmente per cucinare e pulire per i soldati nei checkpoint prima di intraprendere loro stessi la carriera militare per diventare soldati, sorveglianti o perfino boia e terroristi suicidi: almeno 850 minori sono stati costretti in un ruolo sgradito, inadatto e spesso mostruoso. La guerra è un business e, spesso, i gruppi armati sono gli unici che hanno il denaro per pagare e garantire un pasto.
Non va meglio per le bambine che vengono obbligate dai genitori a sposarsi con uomini di famiglie più ricche e che si
possono occupare di loro, pensando di tenerle, così, lontane anche dal rischio di abusi e violenze sessuali.
La situazione è oramai alla deriva, sotto gli occhi di tutti. La vera Strage degli Innocenti del terzo millennio è concentrata lì, nelle foto, nei loro ritratti con occhi grandi che commuovono ma nessuno Stato ha messo in campo strategie risolutive per arginare lo scempio.
Una Gioventù bruciata davanti alla quale si ripensa alla frase di James Dean quando con la voce di Jim Stark dice “Vorrei che ci fosse un solo giorno in cui io non debba sentirmi così confuso e non debba provare la sensazione di vergognarmi di tutto”.
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