Le opinioni superbe . SUPERBIA
Il tempo (passato), perché…
In 30 Giugno 2021 da Redazione Seven BlogCominciamo l’estate con il tema “tempo”. Giugno 2021 è per noi di SevenBlog il mese dedicato al passato. Dalla redazione, raccontini superbi!
da Fabio
Via Lunga
Ci sono infinite strade che puoi calpestare, ce ne sono poche che possono essere un cammino di riferimento. Io ne ho una da calpestare che è punto di riferimento.
Una di queste me le ha insegnate il “Pep” come lo chiamavano tutti, “Pepino” come lo chiamava la seconda moglie, “Peppo” come chiamavo io il mio nonno materno.
Un giorno, ero ancora piccolo, lo guardavo molto dal basso, mi ha portato in una via del centro storico: si chiama “Lunga”, perché lo è, come lo può essere una strada antica di una città.
Da una parte ha solo un muro antico e di muschio, che solo a sfiorarlo puoi immaginare quanti, prima di te, siano passati nei secoli ormai perduti.
Dall’altra parte qualche cortile e uno sfondo di case e muri rossi che commuovono.
C’è, poi, un’altra particolarità: questa via non è solo lunga, ma non è nemmeno dritta, per cui dall’ingresso non ne vedi la fine. A metà del percorso, e ogni passo va centellinato, c’è un’edicola che protegge un affresco, raffigurante la Madonna con il Bambino e San Siro, realizzato per ringraziare la fine della peste del 1577.
E all’incedere dei tanti anni si contrapponeva il mio dei pochi anni ma finiva per collimare e andare all’unisono. E così, passo dopo passo, mi spiegava, che dovevo comprendere come questa strada fosse come la vita. E aggiungeva che sarebbe stato più evidente una volta diventato grande.
Mi raccontava che: “Quando sei all’inizio non vedi, ma nemmeno immagini la fine, mentre più prosegui più cominci a intuire che, seppur piano piano, il percorso giunge al termine”.
“Vedi – aggiungeva – questi muri devi imparare ad ascoltarli, perché parlano di chi c’è stato prima di te. Portagli rispetto e amore, perché non saresti qui senza di loro. Se alzi gli occhi vedi le meraviglie della tua città, i fiori, le case, ma non tutto è gioia o dolce ricordo. Questo dipinto ti dice che ci sono momenti meno felici, ma di cammino ce n’è ancora e tu ne hai tanto, per cui non perdere mai il coraggio. E poi, male che ti vada, alla fine ti bastano dieci passi e sei arrivato al fiume”.
da Manuela
Utero-Jung
Utero-Jung
Plesso minore dell’Utero-Jung. Si comincia nel mezzo. E non c’entra un cazzo Dante. Ve lo assicuro. Perché l’hai fatto? Perché? Una gatta-carnefice che scava. La vanga. Fango. Chi sei? Chi? Intanto sento il mio culo spiaccicato sul ferro. Ho freddo. Tremo. Merda. Non scherzo. Credo che mi sia cagata letteralmente addosso. Mi sento bagnata di un fluido melmoso. Che scivola. Cola. Arriva fino alle caviglie. Tic. Tic. Goccia.
Chi sei? Il passato. Perché l’hai fatto? Una gatta-carnefice che scava. Il fango. Scava. Scava. Scava. D’un tratto. Dolore. Tipo scaglie di legno che grattano sullo strato adiposo di un fianco. Perché l’hai fatto? Perché? Che cazzo ne so, il perché! Sono qui, no? Sbattetemi, fottetemi, cristosanto! Fatemi schizzare merda! Oppure picchiatemi, infilatemi i vostri cazzi dentro, e le dita! Vi devo fare un disegnino? Silenzio. La gatta-carnefice mi punta una lampada addosso. E brucia. Per farvi capire. Ho una faccia-plastica. Che si scioglie davanti a una fiamma di un giallo-sparato-denso. Che le narici si tappano, e poi si sciolgono pure quelle. E vado in affanno. Non respiro. Eppure, ancora qualcosa, tipo ossigeno, o-che-ne-so-io, mi arriva nei polmoni. La puzza. Della mia pelle. Credo. Formaldeide. Insieme al fetore di pesce. Di agrumi inaciditi. Di verdura marcia rimasta in mezzo ai denti. Silenzio. La merda che cola. Ossimoro-numero-x. E piove dal cielo una piuma bianca. Spalanco gli occhi. Una piuma bianca. Cristosanto! Un pezzo più unico che raro da queste parti. Da dove viene. Da dove? Dove? E io che ne so, fottuti pezzi di merda.
La gatta-carnefice scava. Plesso minore dell’Utero-Jung. Si ricomincia da zero. Siamo qui, bambolina per eliminarti. Se non ci dici chi sei. Se non ci dici perché l’hai fatto. Il fucile in mano. Il colpo sparato. Il tuo passato. Perché? All’improvviso. Di nuovo. Un altro Ossimoro. Piuma bianca sul naso. Non è una bella sensazione quando hai le mani legate. Ti viene da starnutire. Nonostante il dolore. Nonostante la merda. E il terrore. E starnutisco. La gatta-carnefice scava. Nell’inguine. Come se avessi dentro un bisturi. E mi stessero togliendo pezzi di carne. E vedo perdermi dalla vagina pezzi di carne calda. E faccio pipì. E smerdo, letteralmente. Di nuovo. Il passato. Perché l’hai fatto? Perché? E sento piume cadermi dall’alto. Sei tu, dio? Aiutami, dio! Il giorno del supplizio. Non reggerò un’altra tortura. Bambolina. Narcotico. Sei sotto l’effetto di te stessa. Se non ci dici chi sei, faremo quello che sai. Scava, gatta-carnefice, scava! Non m’importa di niente. Ha gli stivali come la fiaba. Che poi non ricordo mai il finale. Intanto. Avete presente i bocconcini di manzo? Solo più rossi e pieni di grumi neri intorno. L’intestino. Fegato. Me li sto perdendo da sotto. Dalla vagina. Ossimoro-numero-x. Le piume mi ricoprono il viso. Non starnutisco più. Mi vedo. Tutta. Come se mi stessi di fronte. La testa che ciondola. Casca di lato e pare uno spettacolo bello bello. Rido. E le piume sopra la faccia. Il bianco che copre il rosso. E le gambe, poi. E lì sotto, poi. Uno spettacolo bello bello. Tipo di rivoli di merda, e un effluvio di interiora. Mi sono persa tutto. Tutto.
La gatta-carnefice scava. Bambolina, dicci chi sei. È vero. Li ho ammazzati io. Mio marito. E lei. Che sembrava una camelia. Prima di spararmi, le ho tagliato il sorriso. Con una lama. Ve lo assicuro, in quella posizione, sul letto, era più bella. Col sorriso. Tagliato. Anche all’inferno accadono i miracoli. Nel plesso minore dell’Utero-Jung. Il cuore può battere ancora. Un pulsare che fa male. Tipo martellate. Bam. Bam. Bam. Sento l’ultima botta persino adesso. In petto. Adesso! La benedizione. Dietro la schiena. Avete presente i barattoli chiusi che se li scuoti si aprono a sorpresa? Eccomi. Mi sento un barattolo esploso. Dietro la schiena. Piume che spuntano a sorpresa. Fotto tutti in questo giro d’inferno. Li fotto io, cristosanto! Piume bianche come quelle di un angelo. E cartilagine che le tiene a spina di pesce. Dio m’ha benedetta. Ho ali per fottere. Ecco chi sono, merdosi bastardi. Sono l’angelo che ha ucciso. Sono l’angelo che non ha rivendicato il suo passato. Sono l’angelo che v’ha fottuto e smerdato. E scappo via da qui. Assassina-in-un-sogno. E benedetta-da-dio. Perché anche all’inferno può accadere il miracolo. Un passato del cazzo verrà perdonato. E Dante, quel divin leccaculo, stavolta, non c’entra. Ve lo assicuro!
da Chiara
Nebbia
C’è nebbia. Si alza dai campi spelati e smossi, dalle zolle scure e squadrate dalle lame del trattore. Odora di terra e di freddo, di sole rossastro che sta tramontando. Di mani che sfregano con un leggero fruscio.
Le foglie accartocciate scricchiolano sotto i passi. Si sfiorano appena guardando il terreno, la ghiaia, un uccello piccolo e scuro che, infastidito, si alza in volo da un rovo appassito.
«Ce la siamo giocata di merda, che dici?». Così, con un mezzo sorriso che non vuol dire nulla se non che abbiamo fatto…
«Già. Veramente due idioti». Ribatte strofinandosi il naso. Non è il momento di mettersi a piangere, non adesso. Non più, pensa.
«Quello che è successo… troppe vite nel mezzo per rimediare adesso». Si ferma, un mezzo giro sui tacchi. Sono di fronte. Le nuvole di fiato si mescolano e spariscono, danzano insieme alla nebbia.
«Quello che è stato è un peso, una palla al piede. Abbiamo sbagliato ieri, adesso non si può tornare indietro, siamo diversi, altro, siamo due noi differenti».
Continua a passarsi le mani sul naso arrossato dal freddo. Si guardano, osservano, si stanno leggendo. Hanno tenuto i loro domani tra le dita, un tempo, e li hanno buttati via.
Alza il mento, senza sorridere, lo sguardo che taglia a metà tutto quello che è stato, il prima e il dopo la porta chiusa alle spalle. «La storia ha un peso. È una palla al piede. Abbiamo sbagliato ieri. Già. Ma io non sbaglio, non questa volta. La storia ha un peso. Oggi e domani, di più».
Gli stringe la mano, vanno verso la macchina. La storia pesa. Ma, forse, non così tanto.
da Gianluca
Oggi come ieri
La prima cosa che faccio di mattina è leggere la posta.
Mentre faccio colazione, invece, adoro guardare le notizie. Quelle false sono sempre in agguato, così tralascio i titoli più sensazionali e mi concentro sulle notizie minori.
In bagno, seduto sulla tazza, mi metto a sistemare le foto: le ordino, le catalogo e cestino quelle che non mi piacciono.
Dopo essermi rasato, controllo sempre il mio profilo: mi piace che la gente veda sempre una bella immagine di me.
Prima di entrare sotto la doccia, chiedo al mio assistente di mettermi un po’ di musica rilassante. Ha una lista collaudata di pezzi jazz davvero interessante.
Infine, mi vesto ed esco a fumare la prima sigaretta sul balcone. Questa pausa mi serve per dare un ultimo sguardo al tempo.
Esco di casa quando il sole non è ancora sorto. Nel silenzio assoluto delle prime ore del mattino mi piace ascoltare i cinguettii.
Alla fermata rispondo alle domande su cosa succede.
Sul battello semivuoto resto con gli occhi fissi sul canale. In quella zona non c’è molto campo ma riesco comunque a vederlo fino alla fine.
Alle 6:08 l’imbarcazione arriva alla fermata di Londra. Durante il viaggio la velocità non era un granché ma siamo riusciti lo stesso a navigare. Qualche sito infatti non era raggiungibile e lo vedrò solo nel viaggio di ritorno.
All’uscita, due ragazzi si fanno un autoscatto e devo fermarmi per non rovinare la loro foto.
Per strada c’è un cellulare abbandonato ma nessuno ci fa caso.
Qualcuno mi chiama ma non riesco a rispondere. Non sono neanche riuscito a vedere chi fosse.
Ho voglia di un altro caffè ma prima devo fare una telefonata.
Entro di corsa in una di quelle buffe cabine color rosso fuoco che da poco hanno installato in città.
La voce di mia mamma mi arriva squillante come tutte le mattine.
Mi metto comodo e mi godo tutti i pettegolezzi che mi racconta sugli amici e i parenti del mio paese lontano.
da Caterina
Ricordi di famiglia
Lo studio fotografico di nonno Antonio era un punto di riferimento nelle serate estive. La nonna stava su in casa e mamma si fermava a chiacchierare con lei, noi bambini scorrazzavano tra i piani superiori e lo studio.
I fondali, grandi quadri dipinti a tempera in bianco e nero, erano affastellati sulla parete più grande, di fronte troneggiava la macchina fotografica, poggiata su tre piedi. Se il nonno era impegnato con qualche cliente aspettavamo in sala d’attesa, altrimenti avevamo via libera.
Spesso mi sedevo al tavolino vicino all’entrata, non potevo toccare nulla, ma potevo guardare i pennelli, l’inchiostro e le foto pronte per essere ritoccate. Il fascino più grande, su di me, lo esercitavano gli acquerelli utilizzati, a richiesta, per simulare il colore.
Altro luogo vietato era la camera oscura, lì non potevamo metterci piede, eravamo costretti a sbirciare quando la porta era aperta. Ricordo ancora quando il nonno apriva l’asciugatrice smaltata di bianco e tirava fuori le foto leggermente conche e un po’ calde. In seguito ne ritagliava i contorni con la taglierina zigrinata.
Quando decideva di fotografare noi, sceglieva il fondale, ci disponeva secondo regole precise e spariva sotto il panno nero, dopo pochi secondi ricompariva gridando: Fermi, fermi, e il lampo del flash ci inondava.
Lo studio fotografico Santoro è rimasto aperto, a Carbonara di Bari, dal 1905 al 1976.
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