
Le opinioni superbe . SUPERBIA
Il tempo (futuro), perché…
In 31 Agosto 2021 da Redazione Seven BlogL’estate di Seven ha come tema il “tempo”. Agosto 2021 è il mese dedicato al futuro. Dalla redazione, raccontini superbi!
da Debora
Cara o cruz
I pensieri sono affilati e freddi, lasciano voragini spaventose al centro dello stomaco. Ho sempre immaginato che questi vuoti succhino tutto – il cibo, l’amore, l’energia, la bellezza – e risputino continuamente impercettibili rifiuti di anima morta. A ogni pensiero, un millesimo di anima muore. Una conseguenza inarrestabile.
Manuel non capisce. Non può capire. È attratto da me, mi guarda come un uomo. I maschi, a differenza delle femmine, lo fanno intenzionalmente. Loro sono cacciatori a prescindere, per cui il loro unico sforzo mentale è riuscire a incasellare la donna che hanno davanti in accessibile, difficile, impossibile. Per Manuel sono difficile. Non credo impossibile, dal momento in cui mi siede al lato.
«Sono impossibile, Manuel. Non essere deluso da questa serie di rifiuti, io so cosa si prova, che credi? Che io non abbia mai ricevuto un no? Quando mi sono sentita più affascinante e credevo che il mio carisma fosse alle stelle, pum!, culo per terra. Tu giochi d’azzardo?». Nessun cenno, solo perplessità. Ma come fa a capirmi un ragazzino dell’Havana che conosce tre o quattro parole di italiano?
«Ti spiego la mia personale opinione sul gioco d’azzardo. Io credo che la vittoria arrivi solo quando sei già vincitore. Ma non è un discorso di forze negative o cose così. Credo che un perdente non riesca a entrare in contatto con se stesso, non sia in grado di elevarsi, di sentirsi innamorato. Se sei disperato, tendi a non rischiare nulla. Se hai tutto, rischi tutto. Sei pronto al passo successivo. Giochi. In fondo, vinci perché hai già vinto nell’atto del giocare. Non è una contraddizione. Quindi, Manuel, gioca questa partita, perdi, perdi pure, domani sarai più forte. E quando sarai più forte comincerai a vincere. La vittoria non è un colpo di fortuna, è una preparatissima e innocentissima strategia».
Mi metto a ridere. «Non devi capire per forza, chico. Ti va un caffè?».
«No me gusta el café. Es mejor un mojito, que te pareçe?».
«Mojito? Es mañana, è mattina, santo cielo, chico! Ti stai allargando un po’ troppo».
«Sei mia madre, señora?».
«Ma che cazzo… cosa ti prende adesso?».
«Voglio un mojito, non un caffè. Mi hai offerto un caffè, puoi offrirmi anche un mojito».
Il ragazzo comincia a imparare, ma io non a volerlo assecondare.
«Cara o cruz, testa o croce, Manuel?».
Si volta con un sorriso dall’angolo alzato, asimmetrico, e mi guarda con gli occhi dell’adulto che sarà. «Cara».
«Si sale cara, bebemos mojito hasta emborracharnos. Si sale cruz, bebe tu café sin quejarte».
Ho in mano la moneta, me la passo tra le dita, ne percepisco lo sporco, quell’odore di pelle e di superfici e di tempo. La lancio con uno schiocco di unghia.
da Fabio
La favola dell’elefante
Mio nonno, al Pep, era stato in Africa a far la guerra. Quella dell’Impero, per intenderci.
Ha sempre avuto il piacere di raccontare un po’ di avventure vissute, e talvolta, secondo me, qualche episodio, non dico fosse inventato, ma almeno un po’ ingigantito.
Le storie, che sembravano favole, erano davvero il suo forte. Ricordo bene quella dell’elefante carismatico, degli avvoltoi chiacchieroni e della tigre dalle lunghe zanne.
Mi raccontava la storia del pachiderma ormai vecchio, avviato verso il suo cimitero, che giorno dopo giorno si avvicinava verso il suo destino. Sta a noi poi stabilire – aggiungeva – quanto possa dispiacere oppure quanto sia giusto: era osannato, rispettato, applaudito, perché era il più forte, perché aveva il controllo di tutto.
Ora non era più così: i tempi cambiano.
Ma mentre tutti sono concentrati sul suo cammino, talvolta incerto, eppure spesso ancora orgoglioso, pochi guardano gli avvoltoi che gli ronzano attorno. Gli avvoltoi, invece, sono quelli che lo hanno sempre sfruttato e non vedono l’ora, adesso che è in questa condizione, di papparsi pure lui. Così facendo, dimostreranno e parleranno di quanto siano stati bravi a ripulire ciò che non andava più bene.
E se pochi guardano gli avvoltoi, ancora meno notano le tigri dalle lunghe zanne – continuava il Pep – che sono quelle pronte a prendere in mano la situazione quando l’elefante non ci sarà più e gli avvoltoi avranno ripulito tutto.
E vedrai che, quando le tigri avranno eletto quella che tra loro prenderà in mano le sorti, ci saranno gli stessi che osannavano l’elefante che l’applaudiranno e la omaggeranno. E vedrai gli avvoltoi attorno, sempre gli stessi, che faranno finta di nulla e arriveranno pure a dire che l’elefante era stato trattato in modo indecoroso e che alla tigre vogliono far fare la stessa fine quando sarà il momento.
Quindi, caro Fabio, – chiudeva il Pep – se puoi, non osannare l’elefante, gira al largo dagli avvoltoi, non gioire delle tigri, ma, soprattutto, dubita sempre di chi applaude.
Quanto aveva ragione nonno…
da Manuela
Schianto
I polpastrelli di Mady sfregano la pelle, la porta è chiusa, il bagno una cornucopia di vapori e respiro, e dal vetro patinato si intravede il corpo-elastico-Mady insaponato di Vidal, e lei che attraversa un corridoio, che vede tutto-bianco-chissà-perché, che nota una mosca posata sul buco della parete dove prima c’era un crocefisso, e il fucsia riempie la camera da letto di freddo, e il letto cigola non appena Mady si stende, e ecco il turno di Mady, che si alza dal banco, che raggiunge la cattedra, e il professore le affonda gli occhi gialli nel viso, e fa una specie di ghigno, e Mady sorride rovesciando le pupille all’indietro, e i vapori della doccia bollente non la fanno respirare, ovattato è il rumore dei passi, i suoi, sul corridoio, lungo, bianco, asettico, e a Mady fischiano le orecchie, perché il professore le inchioda uno sguardo fucsia, e Mady ha le convulsioni, e l’acqua continua a scorrere, e lei si strofina la pelle di Vidal, e il fucsia riempie di calore-acrilico-semi-distensivo la camera da letto, e il professore la interroga, ma Mady non riesce a sentire nessuna voce, e lei è nata in questo stesso momento, e i vagiti riempiono di fucsia gli occhi di sua madre, e Mady, distesa nella camera fucsia, non vuole addormentarsi, e l’acqua della doccia continua a scorrere, e la mosca inizia a ronzarle intorno, e la porta è chiusa, e il bagno una cornucopia di vapori e respiro, e Mady è seduta, e di fronte c’è il professore, e lei tamburella le dita sulla copertina del libro che raffigura il taglio di Fontana, e vorrebbe parlare del concetto dilatatorio dello spazio e dell’impertinenza di un futuro al secondo, e cerca gli occhi di sua madre, e i passi di Mady sono lenti, e lei è seduta sulla sedia di ferro, e i vapori della doccia non la fanno respirare, e Mady sente freddo, e si accorge di avere le mani incrociate sul petto, e la mosca le ronza attorno, perché il fucsia ha proprietà-morenti-futuristiche, e la gonnellina di Mady si sta sgretolando, e il professore ghigna, e Mady piange sotto la doccia mentre sta nascendo in questo esatto momento, e la mosca gigante quanto una susina si posa nell’occhio del professore, e Mady si schianta contro l’asfalto, dal terzo piano, e la mosca ronza intorno ai cadaveri, e Mady non vuole rispondere al professore, e come ci si sente a essere morti, Mady?
da Chiara
The Waste Land
Si alzeranno la mattina e guarderanno l’alba. Rossa e grigia, calda e secca.
Scosteranno le coperte dai letti e si gratteranno le gambe, stropicceranno gli occhi e passeranno le dita tra i capelli, allontanandoli dai visi.
Stireranno le braccia tendendo le mani il più lontano possibile dai corpi sbadigliando, prima di poggiare i piedi sui pavimenti.
Storceranno i colli, seduti ai bordi dei letti. Poi, con un colpo di reni, si alzeranno verso i nuovi giorni.
Albe rosse e grigie, calde e secche. Polvere e tosse. Caffè sintetico. Solo alcuni ricorderanno com’era quello vero. Lentamente, si perderanno le memorie di com’era la vita quando il caffè non era artificiale. Alcuni di loro non lo avranno mai assaggiato.
Gli avranno detto che domani sarà meglio di qualunque ieri. E perché no, se la memoria sarà perduta, come i panda e i koala. Come i gatti domestici e i faggi. Come i boschi e l’acqua pulita.
Legioni di stivali a calpestare la terra scura e crepata. Meno, sempre meno. Chi potrà andrà via, a devastare altri posti. Altrove.
A reti unificate, ovunque, su ogni device capace di trasmettere uno straccio di segnale diranno ragazzi, ormai è tardi, arrangiatevi. Alcuni saranno già spariti, seduti su una fiammata, inghiottiti dal buio delle notti. I più fortunati. Gli altri, resteranno immobili a guardare le tracce di fumo sollevarsi oltre le nuvole e andranno a dormire. Oppure non dormiranno, fisseranno i soffitti in attesa del troppo tardi. Arriverà quel momento, il troppo di troppo.
Legioni di stivali a calpestare la terra scura e crepata. Movimenti di piedi e di braccia, occhi a cercare: un filo d’erba, una pozza non così scura, una lepre raminga da cui ricominciare. Ma sarà già passato il momento del troppo. Troppo tutto. Soprattutto, troppo tardi. Qualcuno comincerà a piangere: i non rassegnati, gli ultimi sognatori. Sarà così che finirà il mondo: con un sospiro e un lamento. In albe riarse, una prugna secca che ruota nel cosmo.
Da Gianluca
Domani sarò a casa
L’addetto alla sicurezza pronuncia il mio nome a voce alta, è impaziente, ispeziona nervoso questa improvvisata sala d’aspetto stracolma di gente.
È successo tutto troppo in fretta, come spesso accade in questi casi: cambia il nemico e ti ritrovi dalla parte sbagliata della barricata. Nel paese è scoppiato il caos, l’unica speranza è imbarcarsi sul prossimo volo per l’Europa.
Vado da lui e gli consegno il modulo che mi hanno fatto compilare all’entrata, un sacco di giorni fa.
Non ricordo nemmeno più da quanto siamo qui.
Il giovane uomo controlla i miei dati al computer e poi si ferma a fissarmi: sembra un leone affamato che brama davanti a una preda ferita.
Sento il suo sguardo su di me e il mio cuore si ferma.
Mi aggiusto il velo con un gesto istintivo, dopo dieci anni ho imparato a indossarlo senza nemmeno rendermene conto.
Il tempo è volato eppure mi sembra che nulla sia cambiato in questa città.
L’uomo si gratta la testa e quasi controvoglia mi restituisce la carta d’imbarco e mi fa cenno di andare.
Ho le lacrime agli occhi mentre mi dirigo a passo svelto verso uno dei pochi punti di accesso ancora aperti.
C’è tanta gente anche qui. Soprattutto donne e bambini costretti a fuggire ancora, perché, per loro, sperare è una condanna.
Siamo tutti ammassati come naufraghi su una scialuppa, abbandonati al nostro destino da un cambio di vento improvviso.
Oltre l’Abbey Gate c’è un aereo che ci porterà in salvo.
Ancora qualche ora e prenderemo il volo.
Domani sarò a casa, penso, e un lampo illumina Kabul.
da Giorgio
Se non oggi, domani…
Il ghiaccio si è sciolto e non ho ancora bevuto. Fisso la spremuta. Goccioline minuscole scivolano lungo il vetro e formano un cerchio perfetto. Sul tavolino che è un quadrato perfetto. Di un bar, che un giorno è stato perfetto, anche se non so come possa essere perfetto un bar. C’erano bambini che urlavano correndo attorno alle sedie, e madri troppo impegnate a parlare di ammorbidenti, e il campanello della porta che tintinnava fastidiosamente, e i vetri con troppi aloni, e la cameriera con le gambe troppo gonfie, e tutto era troppo qualcosa, e in fondo, nell’ultima sedia dell’ultimo tavolo affacciato sull’ultima vetrina, c’era lei. Sola, con un cappotto rosso, una spremuta e un libro fra le mani, e occhi troppo limpidi per dirle che mi ero innamorato. Tutto, quel giorno, era perfetto. Tutto, tranne me. Lei mi ha sorriso timidamente e io non ho detto niente. Ha chiuso il libro, ha finito la spremuta, si è alzata e mi è passata accanto. E io ho pensato, per un attimo ho pensato, che quello fosse un giorno troppo perfetto, malgrado me. E che i suoi occhi fossero troppo limpidi per dirle che l’avrei seguita ovunque. E che il suo sorriso fosse troppo timido per dirle che il tempo si era fermato su di noi. E che la sua pelle era troppo bianca per confessarle che avrei voluto baciarla. Così sono rimasto in silenzio e lei è uscita, e il tintinnio del campanello sembrava gesso che stride sulla lavagna, e il cigolio della porta, il mio rimpianto stretto fra i denti.
Così, torno qui ogni giorno e mi siedo nella penultima sedia dell’ultimo tavolo affacciato sull’ultima vetrina e ordino una spremuta, e la fisso finché il ghiaccio non si scioglie. E aspetto, incurante delle mamme che corrono attorno alle sedie, dei bambini che parlano di ammorbidenti e della cameriera con gli aloni, recitando sempre lo stesso mantra… se non oggi, domani… se non oggi, domani… se non oggi, domani…
da Caterina
Over Game
Jorgen si tuffò nel tablet. Sapeva che le sue molecole avrebbero avuto bisogno di pochi secondi per stabilizzarsi. Si sentì calare nella nebbia fredda e lattiginosa finché quel velo bianco iniziò a sfaldarsi ed emersero, come in un caleidoscopio, i mille colori dell’arcobaleno. Sentiva la stessa sensazione di sempre, e mentre il suo corpo s’integrava con la nuova materia, nel giro di un nulla, si ritrovò nel suo video gioco preferito: “Over Time Game”.
Aveva raggiunto, dopo anni di lunghi e violenti combattimenti, il livello più alto, quello che gli avrebbe aperto la porta del futuro. Sapeva che sarebbe stata dura combattere con armi sconosciute contro avversari non umani, ma sapeva che la paura di non riuscire aguzza l’ingegno e rafforza il fisico. Si armò di tutto punto, mise a tacere i sensi di colpa verso la vita vera ed entrò nell’arena.
I suoi avversari sembravano essere fatti di materia inconsistente. I colpi di laser e le scariche di pistola a protoni attraversavano corpi che si scioglievano in pozze di sangue e da esse riemergevano più forti e vigorosi; il loro punto debole, per Jorgen, restava un mistero.
Per più volte, egli, riuscì ad evitare il tiro nemico ma, nonostante i suoi sforzi fu costretto a ritirarsi in uno spazio angusto dove il tanfo del pericolo si percepiva fortemente nell’aria. Consapevole di non avere più scelta decise di lanciarsi in campo aperto alzando le mani in gesto di resa, ma era già tardi. Un colpo di laser gli tranciò di netto la testa: aveva osato troppo. Per lui il futuro non sarebbe mai esistito.
Stiamo progettando una rivista letteraria per aiutare le nuove voci a emergere. Abbiamo sempre la stessa vision: diffondere cultura e talento.
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