
Le opinioni superbe . SUPERBIA
Il confine, perché…
In 30 Novembre 2021 da Redazione Seven BlogCos’è il confine? Quanti significati può avere? A Seven riflettiamo sul tema e scriviamo raccontini superbi!
da Debora
Cinque centimetri intorno al corpo
«Sai cos’è l’aura? Io, ora, la posso vedere. È un corpo sottile che si irradia intorno al corpo. Si calcola in cinque centimetri. Ognuno di noi ha cinque centimetri di aura intorno alla pelle. Noi non finiamo con la materia, finiamo con energia. Funziona così: quei cinque centimetri sono invalicabili. È una gran brutta abitudine degli estranei allungare il proprio corpo verso l’altro. Le persone che lo fanno, non vedono l’aura. Quei cinque centimetri sono esplorabili da pochi, da chi ami. Solo chi ami può avvicinarsi a te, scavalcare l’aura e unire la sua alla tua. Non è stato facile per me unire la mia aura a un’altra, dopo quella sera. Ho in parte rimosso ciò che accadde quella maledetta sera sulla spiaggia. Non ricordo neanche il viso del ragazzo, anche se la sensazione è rimasta – che paradosso! – positiva: capelli lunghi, camicia beige, un ragazzo pulito. Un mostro in un ragazzo pulito. Senza motivo mi ha rovinato la vita e io non capirò mai perché. Le conseguenze di questa cosa sono state terribili, perché sono diventata una ragazza intransigente, che credeva di avere un conto aperto con la vita, egoista, che viveva di vittimismi con la scusa di essere un’artista, chiusa nella convinzione che non esistesse armonia fra gli esseri umani. Poi, pian piano ho capito i miei errori e ora sono contenta di non essere scivolata in quell’inutile convinzione di essere in credito di qualcosa. È successo ciò che è successo, e ne sono successe molte altre che poi mi hanno fatto capire quanto fosse ingiusto andare incontro al buio per il solo gusto di dire che la luce non esiste. Non è un processo facile, sono cresciuta in fretta, eppure, in un certo senso, non sono maturata finché non ho capito la gioia di donarsi».
Un’altra delle tante lettere anonime arrivate al centro. La chiudo, la archivio tra le donne che non hanno denunciato. Penso a quella vita, al processo doloroso di essere vittima silente, all’educazione impartita a se stessa, di donna che ha imparato ad amare, pian piano, con il corpo che urlava vendetta e la mente che lo biasimava. Mi guardo, e vedo il confine dei cinque centimetri intorno a me, a chi lo ha negli anni attraversato con amore, o con disprezzo, o con arroganza. O con noncuranza.
da Fabio
La decisione
È stata una tra le decisioni più difficili della mia vita.
No, la più difficile.
Ci ho pensato, ripensato, valutato, ragionato ma lo sguardo finiva sempre lì, lo stesso punto, dove c’era troppo poco, anzi non c’era abbastanza.
Tempi difficili dicono, tempi che capitano, ripetono.
Entro, mi guardo attorno, devo controllare e non farmi notare. Ho l’aria indifferente e il cuore che batte forte. E non ho fatto nulla. Già sento il senso di colpa, il peso dell’educazione, lo stato d’animo della scelta colpevole.
Prelevo e rimetto a posto, prelevo nuovamente ma qualcuno mi passa accanto e rimetto a posto. Cosa hanno da guardare, non avete mai visto nessuno guardare e scegliere?
Metto una mano in tasca, lo spazio può bastare.
Ho preso quello che potevo, ho preso quello che non potevo.
Mi avvio e mi chiedo se ce la farò, cosa gli dirò, cosa penseranno.
Sono sudato, avrò le guance rosse, per fortuna non si possono vedere. Passo, esco, mi allontano, ce l’ho fatta. Non lo farò più.
Torno a casa, guardo il biglietto: un panino e una mela. Quello che avevo è bastato. Dalla tasca tolgo una scatoletta: per quella non bastava.
Pranzo sentendomi senza dignità, con la colpa addosso.
Tempi difficili dicono, tempi che capitano, ripetono.
Non sono più quello di prima.
da Manuela
Red zone in tautogramma
Sandrina sbalordita sbircia sbieca scabre sbecchettate:
sulla scena, sciacquette scontente scanzonano schiappe,
scellerati soldati schiaffeggiano sartine,
Siria-senza-scarpe scalda soprani,
schiave succinte svezzano scolaretti,
scagnozzi scaltri sventolano scafi schiaffando scettri su sboccate svergognate,
scalze scapigliate schifano scapoli, scarafaggi, sclerati scippatori.
Sulla sabbia schizzano salamandre salterine, schiave schiamazzano, svendute sorridono.
Sotto salici selvaggi, sagrestani sfruttano senza sosta Samanta-sisa,
Sirmia, sospesa sui salami, sgretola senni, solleva sipari,
salse sfumate su salsicce sono servite,
Santi scherzano su scampate sciagure, scandali scarlatti.
Suvvia, sono scaramucce senza scopi satanici!
da Chiara
2021
Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case,
Loro, che le case le hanno dovute lasciare,
voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e visi amici:
Loro, che vagano tra boschi innevati o attraversano le onde gelate d’inverno:
Considerate se questo è un uomo, che cammina nel fango e che non conosce pace, che lotta per mezzo pane, che muore per un sì o per un no.
Spinti, tirati, confinati tra fucili e fili spinati, avvolti in giacconi bucati. Scarpe di tela e miraggi: una tazza di brodo, un tetto. Sono uomini, questi, così come noi?
Considerate se questa è una donna, senza capelli e senza nome, senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo come una rana d’inverno.
Velate, a capo scoperto, i figli appoggiati alle anche, camminano. Piangono, forse. O tacciono, forse, in balia del vento. Consideriamo se sono donne anche loro, così come noi?
Meditate che questo è stato: vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via, coricandovi, alzandovi. Ripetetele ai vostri figli.
Questo è: lontano ma non troppo, vicino ma non abbastanza.
Non basta conoscere quello che è stato, non basta. Non è scolpito da nessuna parte, non è stato ripetuto.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.
da Gianluca
L’ultimo confine
«Mamma, cos’è un confine?» chiese il bambino.
Da quando si erano messi in viaggio aveva sentito quella parola già tre volte, e ogni volta il tono usato da sua madre non gli era piaciuto.
Il bambino si era ormai convinto che fosse qualcosa di spaventoso.
«Mamma, cos’è un confine?» ripeté dopo che si stavano allontanando un’altra volta da quel posto che terrorizzava tutti gli adulti del folto gruppo di persone che viaggiavano insieme da parecchi giorni.
Il bambino aveva ripetuto la domanda perché il respiro di sua mamma era tornato regolare. Durante quel lungo viaggio aveva imparato che questo significava che si erano allontanati da un altro confine.
Erano fuggiti in piena notte dal loro villaggio. Suo padre gli aveva parlato spesso di un posto che si chiamava Germania dove si era trasferito suo fratello. Dalla prima volta che aveva sentito quella storia, il bambino aveva fatto lo stesso sogno tutte le notti: giocava con i suoi cugini in un giardino bellissimo, pieno di fiori. Era un posto incantato, dove non c’era mai la guerra.
«Questo è l’ultimo confine», disse a un certo punto sua mamma. Erano da poco giunti in un bosco posto pieno di gente. «Dopo quel filo spinato c’è l’Europa», aggiunse la donna, dopo averlo preso in braccio.
Il bambino spinse lo sguardo oltre la testa di sua mamma. C’era tanta gente e dovette allungare il collo per riuscire a scorgere il filo spinato.
Eccolo là, l’ultimo confine, pensò, abbracciando ancora più forte sua madre. Tra pochi giorni avrebbe raggiunto i suoi cugini che non vedeva da tanto tempo. Era così felice che dimenticò di avere fame. Era così felice che non volle chiedere perché dovevano accamparsi là e non andare subito in Germania.
Il bambino non aveva mai sentito così freddo, strinse forte i denti per non farli battere.
Era un freddo nuovo, un freddo gelido, un freddo da morire.
da Giorgio
Il confine
La strada della vecchia chiesa è un sentiero stretto che serpeggia per quattro chilometri fra gli alti pini nelle colline a nord di Helsinki. Silenzio e mirtilli fuori dalla porta, un alce che si avvicina con l’odore di cucinato e una vecchia sedia di legno nel patio. Le mattine hanno l’aroma del caffè lungo e il profumo del pane tostato. Le mattine si somigliano tutte, da mesi. Vorrebbe che anche i mesi si somigliassero tutti. Poi si tocca istintivamente il fianco destro e pensa che presto o tardi tutto questo cambierà.
La ragazza si avvicina a piedi, è scesa dalla corriera all’inizio del sentiero e ha camminato per quasi due chilometri. Potrebbe avvisarlo e lui le andrebbe incontro con la macchina ma lo fa solo quando piove. Alla ragazza piace camminare fra i pini, a lui piace indugiare nell’attesa con la tazza di caffè lungo fra le mani.
C’è un esame da preparare e la dizione francese da migliorare. Lui ha vissuto a Parigi tanto tempo prima, lei vorrebbe conoscere la città dell’amore, toccare le nuvole in cima alla Tour Eiffel, visitare il museo delle cere dove, gli ha raccontato lui, i visitatori e le statue si confondono. Forse voleranno insieme fino a Parigi, o forse no, ma è bello sognarlo, soprattutto per lei.
A pochi passi dalla casa lei comincia a correre, sorride, ha già le braccia aperte, lui scende tre scalini e l’aspetta. A lei piace saltarle addosso, riempirlo di baci, stringerlo forte e morderlo sul collo. Lui sorride, chiude gli occhi e dice basta, inutilmente. Le mattine hanno il fruscio delle pagine del libro e la freschezza della voce di lei che legge, inciampa nelle consonanti alla fine delle parole, sorride e riprova. Da mesi. Quando sbaglia, lui scrolla la testa e ripete in maniera corretta la frase. All’alce non piace il francese e nemmeno la gente, così la mattina rimane nascosto al riparo degli alti pini.
Lo squillo del telefono nel soggiorno rompe l’armonia. Lui si alza e solleva l’indice verso la bocca di lei, è serio, controlla l’orologio e fissa la porta di casa. Un minuto dopo il telefona squilla di nuovo. Con la mano afferra il vuoto sul fianco destro e pensa che forse è giunto il momento. Lo sguardo segue la lancetta che scandisce i secondi, un minuto, un minuto esatto e il telefono squilla di nuovo. Lei non sa che fare, lui aspetta immobile. Cos’è un minuto? Diciotto, forse venti atti respiratori per una persona normale, sessanta o settanta battiti regolari del cuore di lei. Per lui meno, molto meno, è il risultato di un lungo, costante allenamento. Il telefono squilla per la quarta volta, un suono breve poi silenzio. Quattro minuti, quattro squilli e la testa che gli dice che è ora di partire. Le bacia la fronte per un tempo che sembra infinito. Non servono parole. Quei mesi sono stati un dono del Signore, gliene è già grato, ma è ora di tornare in servizio. Lei ha gli occhi rossi, pensa che non riuscirà a passare l’esame di francese, e che comunque Parigi è troppo umida in questa stagione. E che in fondo l’amore era bello anche farlo a due chilometri dalla vecchia chiesa.
Lui pensa che se adesso la baciasse in bocca morirebbe lì, sul patio, e che forse non gli dispiacerebbe. Stringe i denti e le dice semplicemente ciao. Lei vorrebbe trattenerlo, spiegargli che c’è un’altra ragione per vivere, che vent’anni possono bastare per perdonare, anche il Signore ha perdonato e lui gli risponderebbe che non è il Signore e che gli ordini non si discutono, si eseguono e basta.
Monaco era un confine, non dovevano oltrepassarlo, era una festa, non avrebbero dovuto infangarla, era un sogno e l’hanno sporcato di sangue. La Signora Meir si è raccomandata, niente danni collaterali, solo i responsabili devono pagare. Quattro squilli a distanza di un minuto, hanno trovato l’ultimo terrorista, è ora d’agire, pedinare, pianificare e terminare la missione.
Poi si torna a Gerusalemme. Per sempre, o fino al prossimo incarico.
da Caterina
Luna piena
Come tutte le sere lo vedo fermo vicino alla porta del garage. Mi indirizza con i gesti lenti delle mani. Se seguissi le sue indicazioni prenderei il muretto, quindi fingo di assecondarlo.
Finita la manovra, gli do un bacio sulla guancia rugosa, mi sorride. Sembra proprio felice e mi guarda con occhi sempre più raggianti, come se fosse ebbro di gioia. Poi si fa serio e mi dice:
«Vieni, vieni con me. È una cosa meravigliosa, non si può spiegare».
«E quale sarebbe questa cosa meravigliosa che hai visto?», gli chiedo.
Mi prende per mano e ripete: «Non si può spiegare. Mai vista una cosa così bella, vieni».
La mia perplessità aumenta, ma papà non tentenna. Mi trascina in casa, attraversiamo la cucina e usciamo in giardino. Guardo con attenzione, ma non vedo niente di particolare.
Lui mi scruta, prima perplesso, poi riprende a sorridere e solleva un dito verso l’alto. Alzo il capo e cerco, ma non vedo nulla di strano. Torno a guardare mio padre che, con l’indice alzato, mi sta indicando la luna e mi chiede: «Non ho mai visto una meraviglia così… dimmi, cos’è?».
Gli occhi mi si riempiono di lacrime. Che senso ha dirgli che si tratta solo e semplicemente della luna? Che l’ha vista mille e mille volte, ma che forse gli era scappata dalla testa e ora, facendo capolino in cielo, l’ha ritrovata.
Inghiottendo le mie stesse lacrime, mi faccio contagiare dalla sua gioia infantile e gli sorrido.
«Papà, che bella! Che meraviglia! Non l’avevo vista mai neanche io! La chiameremo Luna, sarà il nostro segreto».
Con la felicità stampata tra le rughe del viso, mi cinge le spalle. Nonostante il freddo restiamo lì a guardare quella enorme palla bianca sospesa nel buio. Quando sarà stanco entreremo in casa: ora è lei la protagonista della nostra serata.
Stiamo progettando una rivista letteraria per aiutare le nuove voci a emergere. Abbiamo sempre la stessa vision: diffondere cultura e talento.
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