Io e il dottor Zeta, la ragazza Ics ed io
Ics #9
In 26 Gennaio 2023 da Debora BorgognoniPer strada cammina col turbo e mi stupisce la sua fretta. Poi si ricorda che ci sono anch’io e che magari sarebbe carino rivolgermi la parola.
«Le piace la cucina indiana?».
«Sì, sì, non è male», mi affretto a dire. Non l’ho mai assaggiata, non so se mi piacerà. Spero di non star male.
Sorrido involontariamente. Lui mi vede.
«Le è venuto in mente qualcosa? Sta ridendo».
«Sì», dico, e non so perché lo dico. Il sì prevede il cosa. E io devo dirglielo, devo parlare, o il ghiaccio non si scioglierà.
«A dire il vero non ho mai mangiato indiano in vita mia. E poi…».
«Ah, davvero? … Poi?».
«Eh? Cosa poi?».
«Non lo so, l’ha detto lei. Ha detto “poi”, e non è più andata avanti».
«Ah, già, ho detto “poi”. Forse volevo dire che, del resto, questa serata mi sembra un po’… strana, ecco. Siamo un po’ maldestri, noi due».
Anche lui sorride. È un po’ più imbarazzato di me. Ho freddo, adesso, e mi pento di non aver preso dall’auto il maglioncino di cotone. La pioggia di ieri ha lasciato nell’aria un freddo cronico, che sembra cadere anche sulle persone.
«Ha freddo? Vuole la mia giacca?».
Vorrei abbracciarti, vorrei abbracciarti, vorrei abbracciarti. «Se per lei non è un disturbo, sì, grazie».
Appoggia a terra il casco, dentro cui ha infilato con fatica il giubbotto da motociclista. Si toglie la giacca e rimane con addosso una camicia dai bottoni tirati che mette in evidenza la pancia rotonda e molle. Sembra una grande balena col suo strato di grasso, una balena buona che vuole solo condurmi al largo nell’oceano. Si avvicina camminando in modo sbilenco. Io allungo la mano per prendere la giacca ma lui ignora il mio gesto. Mi guarda. Mi mette a disagio squadrandomi così. Mi sembra un’analisi. Mi posa la giacca delicatamente sulle spalle e subito si gira, riprende il casco e si incammina. Lo osservo da dietro. Cammino, ma è come se fossi ferma. Mi accuccio nella sua giacca e sento quel profumo di fresco prevalere insieme a un leggero puzzo di sudore dovuto al lavaggio in acqua fredda. Respiro a pieni polmoni e ogni tanto chiudo gli occhi. Sorrido. Non mi dispiace che lui mi cammini davanti.
La vetrina del ristorante indiano di via Solferino è un trionfo di luci e colori. Il dottor Zeta si volta, ansima un po’ per la fatica della camminata. «Venga, siamo arrivati».
Tolgo la sua giacca e gliela porgo. Lui mi sorride e la tiene su un braccio.
All’interno, il ristorante è scuro. È una cosa fatta apposta. Le luci sono basse e gialle e lasciano ampio spazio all’illuminazione derivata dalle candele sui tavoli. Il cameriere sembra non conoscere il dottor Zeta, non ha lo sguardo ammiccante, di quelli che dicono: “È questa la nuova pollastrella?”. Insomma, nulla è come avevo immaginato. Il dottor Zeta non sembra nemmeno averci mai messo piede lì dentro. Si muove con imbarazzo e si guarda intorno curioso. Io seguo lui, che segue il cameriere.
«La sua segretaria dice un posto carino. Io credo questo il più bello», arrangia il cameriere.
Ci spalanca con un movimento elegante del braccio una saletta coi tavoli bassi e poltroncine a terra, grandi tappeti dalle tinte rosse e tende dorate, narghilè di dimensioni differenti posati su un tavolo da oppio e lampadari in madreperla. Ci fa accomodare a un tavolo apparecchiato per due, su cui è posata una sella in lamé ocra e arancio, sottopiatti variopinti, sei bicchieri, posate pesanti dalle forme arrotondate e tre candele che fanno pensare ad Aladdin.
Io mi siedo alzandomi la gonna fin quasi all’inguine e me ne frego se il cameriere per qualche secondo non riesce a staccare gli occhi dal perizoma di pizzo bianco, dietro cui si intravedono i peli pubici. Anche il dottor Zeta lo nota, ma distoglie lo sguardo con un’involontaria scrollata di testa.
Lui non si siede. Aspetta fermo, in piedi, che il cameriere posi i menu sul tavolo e se ne sia andato. Devo alzarmi anch’io? Sono stata maleducata a sedermi prima di te?
Ride impacciato. «Credo che per me ci sia un reale problema».
Oddio, e quale? Ti scappa una scoreggia? Te la sei fatta sotto? Oh, cazzo, non mi dire! Sei sposato e hai visto tua moglie nell’altra sala con un uomo! Gli guardo le mani, automaticamente. Niente vera, nemmeno il segno bianco sulla pelle, quindi o è sposato e non l’ha mai indossata, o non l’ha mai nemmeno posseduta. Risponde lui. «Credo che i miei calzoni esploderanno, se mi siedo lì sotto».
«Ma no, che dice! Provi a slacciarli e tutto si sistema». Ma non potevamo saltare questa cena? Slacciali, dai, tanto fra un po’ te li slacci comunque.
Lui se li slaccia velocemente e al tempo stesso azzarda la manovra di discesa. Il bottone non tiene e cade sul tavolo. Io rido. Rido. Senza contegno. Senza pudore. Piango. Ho le lacrime. Aiuto!
«Mi scusi dottor Zeta, mi scusi. Ahahahahaha! Mi scusi davvero!».
Singhiozzo, il trucco mi si sta sciogliendo, cerco di calmarmi. Lui ride con meno foga, poverino, ride per non farmi sentire stronza.
Arriva il cameriere e io mi calmo. Il dottor Zeta non mi chiede nulla, nemmeno se preferisco il rosso o il bianco. Ordina per tutti e due con fare esperto e io capisco che è abituato a quella cucina e anche a pronunciare quella lingua complicata. Non so cosa sta ordinando, ma almeno poteva far finta di chiedermelo! Sono esterrefatta. Ordina champagne, poi si gira e dice: «Il vino francese è sempre meglio di quello indiano, non trova?». Se è per questo allora anche la cucina, non trovi? Annuisco con un sorriso forzato.
Il vino lo conosco, è un Philipponnat Cuvée del 2002, so che è molto costoso. Il cameriere lo serve guardandomi negli occhi. Ma quello lì ci sta provando? Non vede che sono a cena con un uomo? Forse non crede che una ragazza di venticinque anni possa stare con un cinquantenne come il dottor Zeta. Allora mi ha preso per una escort! E lui cosa vorrebbe? Pagarmi? Farmi gratis perché ha la mia età?
Finalmente l’indiano dallo sguardo penetrante se ne va. Mi esce dal nulla la frase che dico al dottor Zeta, mentre è intento a osservare il perlage dello champagne.
«Sa, gli indiani hanno gli occhi talmente scuri che sembrano truccati. Riflettono il nero dell’iride persino sulla pelle. Sembra proprio che abbiano una linea di matita sotto gli occhi».
«Mmmm… forse, adesso che me lo dice, sì».
Non sembra interessato al discorso. Invece poi sorride e mi dice voltandosi per un attimo indietro e rigirandosi da me: «Ah, parlava del cameriere? Senza dubbio è un bel ragazzo. Dovrebbe avere la sua età più o meno. Lei quanti… quanti anni ha, signorina?».
«Cosa? Io? Venticinque. Ma perché mi chiede… no, io non parlavo del cameriere, no, no». Dottor Zeta, ma cosa ti salta in mente? Hai distrutto tutto, tutto. Perché questa farsa? Perché quella domanda? Stai dicendo fra le righe che sono troppo giovane per te? Proprio ora che mi stavo… mi stavo…
Comincio a bere un bicchiere dopo l’altro e parlare in modo convulso. Di cosa? Boh, non lo capisco nemmeno. Comincio a mangiare tutto quello che mi mettono davanti. Lancio sguardi al cameriere, che mi sorride arrapato, ci manca solo che mi chieda il numero. Straparlo, stramangio, strabevo. Quando lui accenna a qualcosa, io sbadiglio. Voglio fargli male. Adesso lo capisco razionalmente. Mi ha chiamata, mi ha pagata, mi ha fatto lasciare Dario. Mi ha fatto mandare ‘affanculo un matrimonio programmato tra sette mesi. Mi ha trascinata qui, mi ha…
Ma forse lui non ha fatto niente, tranne avermi proposto mille euro per una cosa che non ha mai pronunciato. Ha detto che me l’avrebbe svelato qui, a cena, seduti, calmi. L’ha detto. Che me lo dica allora.
Mi fermo. Metto sul piatto le posate. Mastico lentamente e finisco lo champagne che ho nel bicchiere. Respiro, mi scappa un rutto. Mi copro la bocca con la mano. Troppo tardi. Lui mi guarda, gli occhi sgranati. Sono più pazza di lui. L’alcool ha solo accelerato il processo, nulla che non fosse già preventivato. Mi schiarisco la voce. «Siamo a cena. Siamo qui, dottor Zeta. Non conosco nemmeno il suo nome, ci diamo del lei come due esseri patetici. Siamo un po’ patetici, credo, ma forse lo è chiunque. Però noi siamo qui e io ho mille euro in una busta».
«Mille due, a dire il vero».
«Eh?». Mi disarma.
«… Perché avrei bisogno di lei anche domani mattina. Forse non è stata una buona idea farlo stasera, lo champagne di solito segna un po’ il viso. Ha presente le facce di chi è ubriaco? Gli occhi diventano un po’ piccoli e le occhiaie nere, il contorno del naso rosso e le espressioni sono sempre da pesce lesso».
Ma sei impazzito? Ma sei…? Ancora senza parole. Di nuovo, lui gioca a rendermi muta.
«Però dovevo dirle come l’ho conosciuta. Sono nella commissione artistica del Premio Azzurro, non dovrei dirglielo, ma so che manterrà una certa discrezione. In fondo, capirà che ne andrebbe della sua credibilità. Non sarebbe bello sapere che frequenta un giurato, così come io non dovrei frequentare lei. Ma ormai la nostra scelta è stata fatta. So che lei ha vinto, glielo dico in anteprima. Non è merito mio, non faccio parte della commissione che riguarda la pittura. È un’altra, la mia sezione. Comunque, ho avuto tra le mani tutte le opere in gara e devo dire che una delle sue mi ha colpito particolarmente».
Il dottor Zeta continua a mangiare compostamente, come se non mi avesse appena detto la cosa più bella, la cosa più inimmaginabile della vita.
«Lei ha presentato un progetto sul self-portrait. Si è ritratta mascherata in quasi tutti i dipinti, in vari contesti e rappresentazioni di allegorie. Dove non era mascherata, ho visto una donna che si nascondeva dietro un abito, un lenzuolo o un velo. In una, lei era sdraiata a terra, sull’asfalto, in mezzo a sacchi di immondizia, col seno nudo e il viso semicoperto dai capelli. Mi è piaciuta l’idea. Io però desidero vederla senza maschera, senza intoppi. In senso stretto e in senso lato, a scanso di equivoci. Con la sua opera ha voluto affermare di essersi buttata via insieme alla sua arte, che entrambe siete cose che non servono più. Ma ripeto, io voglio vedere ciò che ancora serve. Non le so dire con precisione cosa abbia attirato la mia curiosità. Però il fatto di averla incontrata di persona l’ha alimentata. Sapevo già che aveva vinto il contest. Mi aspettavo un’artista indaffarata a riempire di colori le pareti di casa, ad aggredire una tela. Invece ho trovato lei, un po’ fragile, un po’ indecisa se togliere la maschera o indossarne una ancora più confortevole. Guardi, io ho quarantanove anni, dubito che cambierò, la mia natura è cronica ormai, anche se ammetto di provarci. Ma lei mi ha appena detto di averne venticinque, e a venticinque anni aver paura di vivere la vita non è una cosa accettabile».
Ma cosa ti sei fatto, dottor Zeta? Come ti permetti di farmi la paternale? E tu chiami vivere la vita fare sesso con te domani mattina perché stasera ho occhiaie troppo profonde? È questo il tuo concetto di essere se stessi, di togliersi la maschera? Rimango in silenzio. Mi viene da piangere. Divento triste. «Andiamo, la prego, chieda il conto».
Sa di avermi fatto male, lo sa, anche se tutti e due siamo troppo vigliacchi per discuterne. Chiede il conto e io non ho più voglia di guardare il cameriere indiano. Penso ai suoi capelli lucidi, a quegli occhi truccati e furbi, a quel fare esperto, a quella bellezza. Penso che la sua razza sia più bella della nostra, indubbiamente. Ma poi penso che non cambierei per nulla al mondo questa sera con una insieme all’indiano. Mi odio per questa scelta. Mi odio per aver desiderato il corpo molle del dottor Zeta, mi odio per essermi fatta portare al largo da questa balena buona.
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