CattiviConsigli . IRA
Per sé e per i suoi – puntata II
In 11 Agosto 2023 da Gianluca PapadiaRiposare in pace all’ombra della speculazione edilizia cimiteriale
Procolo si chiude il cancello alle spalle e accende il flash del suo cellulare.
«Occhio alla testa, se vi fate male, io passo un guaio», mi dice e si infila tra due torri fatte di tubi innocenti.
Io lo seguo titubante e, visto che la visibilità è davvero limitata, decido di accendere anche il flash del mio cellulare.
«Gli elettricisti stanno lavorando al secondo piano, è per questo che siamo al buio», esclama il mio compagno di sventure con un tono da guida turistica.
Dal secondo piano, infatti, arriva un rumore di trapano misto a martello pneumatico. Di tanto in tanto cade qualcosa dal soffitto.
«Non vi preoccupate, è solo un po’ di polvere, stanno facendo le tracce elettriche e ogni tanto cadono un po’ di calcinacci».
“Stanno succedendo cose strane”, risuona come un ronzio nella mia testa mentre cammino in quel labirinto dantesco che sembra un gigantesco alveare: le due pareti del corridoio sono composta da blocchi di cinque piani; ogni piano ha tre cavità quadrate.
«Eccoci arrivati», dice Procolo quando siamo giunti davanti al muro perimetrale che sta in fondo al corridoio centrale. Con la luce del flash illumina una serie infinita di scatole rettangolari di alluminio poggiate a terra. Ogni scatola ha un’etichetta sulla quale è stampato un codice a barre e il numero del loculo.
La logistica della grande distribuzione applicata alla conservazione delle anime.
La maggior parte delle scatole ha le foto dei defunti attaccate con il nastro adesivo e qualcuna pure dei foglietti con i nomi scritti a penna.
«Basta cercare la numero 425», esclama candidamente Procolo, «così prendiamo le foto da dentro e le attacchiamo sopra con lo scotch».
Procolo inizia dal lato più lontano, io parto dal lato opposto al suo.
«Perché non sono in ordine?», chiedo ingenuamente.
«I lavori non seguivano la numerazione. Man mano che si abbatteva una parete, le scatole venivano portate qui. Ma che fate? Dovete controllare anche quelle con le foto. Siete così sicuro che in tutti questi anni non è venuto nessuno a reclamare le salme? Mettete che qualche parente vostro è già venuto e ha già preso le foto da dentro la scatola…».
Il ragionamento di Procolo non fa una piega e così ricomincio la ricerca da capo.
Dopo un paio d’ore raggiungiamo entrambi il centro della fila ma della numero 425 nessuna traccia.
«Quella qua deve stare, io difficilmente mi sbaglio. La nicchia vostra è stata ricostruita nella prima fase. Ma voi non vi ricordate qualche defunto che stava vicino a vostra nonna? Quando li abbiamo portati qui abbiamo fatto attenzione a rispettare l’ordine delle nicchie originali. Magari abbiamo sbagliato a segnare il numero corretto sulla scatola vostra».
«Posso provare a chiamare mia mamma».
«Ecco bravo, fate così. Io porto un attimo questa canalina al piano superiore e poi ritorno».
Procolo prende uno scatolo di cartone dal pavimento e si arrampica su una scala fatta di tubi innocenti che sta nell’angolo più scuro del corridoio. Quando la luce del suo flash scompare dalla mia visuale il mio cuore smette di sbattere.
«Pronto? Mamma? Ti ricordi qualche defunto che stava vicino ai nonni?», sussurro al cellulare con gli occhi stretti per la paura.
«Ma perché hai questa voce tremolante? È successo qualcosa? Mi stai facendo paura!».
«No, niente, è solo che non trovo la scatola coi resti dei tuoi genitori».
«Uh, madonna santa, allora tua moglie aveva ragione. Ha detto: stanno succedendo cose strane al cimitero!».
«Nessuna cosa strana, hanno solo traslocato i resti in piccole scatole di metallo. Poi, quando finirà la ristrutturazione, ogni defunto tornerà al suo posto».
«E dove le hanno messe? Lo sai che si dice? Che hanno buttato i resti nella fossa comune e si sono rivendute le nicchie», sbotta lei e inizia a piangere disperata.
«Stanno al sicuro, non ti preoccupare. In questo posto nessuno può entrare. Con me hanno fatto un’eccezione! Adesso stai calma e dimmi se ti ricordi qualcuno che giaceva serenamente vicino ai nostri cari».
«A sinistra c’era la moglie di Gennaro il fruttivendolo, è morta poco prima della nonna».
«Come si chiama Gennaro di cognome?».
«E non me lo ricordo a mamma».
Com’era fatta sta signora?».
«Uh, Gesù e non te la ricordi? Quando andavamo lì ti regalava sempre una banana».
Riparto alla ricerca di quell’immagine che è emersa dai miei ricordi di bambino ma, dopo aver passato al setaccio tutte le foto di giovani donne bionde, mi accorgo che non c’è traccia della generosa moglie del nostro fruttivendolo.
«Non c’è, la moglie di Gennaro non c’è. Forse la sua foto è ancora dentro una di queste scatole», dico affranto al telefono mentre mia mamma continua imperterrita a raccontarmi la storia dell’inconsolabile fruttaiolo che non si è mai ripreso dalla scomparsa prematura della sua compagna di una vita.
«Ernesto Pisacane non ti dice nulla?», domando improvvisamente a mia mamma.
«No».
«Luisa Martusciello?».
«Nemmeno».
La mia idea è quella di procedere al contrario: leggere i nomi dei defunti sperando che mia mamma ne riconosca qualcuno.
Dopo i primi venti nomi, mia mamma aggiunge al “No” un fastidioso “Ma non è che questi si sono persi i resti?”.
«Procolo ha detto che sono qui da qualche parte, vedrai che li troveremo», le rispondo ogni volta per cercare di tranquillizzarla.
Dopo aver letto la metà dei nomi scritti su quell’ammasso di scatole di latta, il mio cellulare emette un segnale che mi avvisa che la batteria si sta scaricando. Sento il battito cardiaco in rapido aumento.
«Mamma, ti devo lasciare che ho il cellulare scarico».
«Mi raccomando, non uscire di là se prima non trovi a mamma e papà. Lo sai che sta succedendo?».
Interrompo la comunicazione proprio mentre il cellullare emette un altro beep.
«Procoloooooo. Procolinoooooo. Procoluccioooooo», urlo più forte che posso.
Spengo il flash per risparmiare un po’ di carica e solo con la luce del display cerco la scala da dove è scappato l’infame.
A ogni passo sento il pavimento scricchiolare sotto i miei piedi e ho la bruttissima sensazione che qualcosa voglia aggrapparsi alle mie caviglie.
«Procoloooooo. Procolinoooooo. Procoluccioooooo», urlo ancora più forte.
Quando raggiungo la scala il mio cellulare segna l’un per cento della carica della batteria.
«Procoloooooo. Procolinoooooo. Procoluccioooooo», e inizio a scalare quella struttura abbastanza instabile.
Giunto all’ultimo gradino, una sagoma nera si materializza dal nulla e per poco non cado giù dallo spavento.
«Procolo è dovuto andare via», pronuncia un giovane pelato con la barba.
«E mi ha lasciato da solo in questo posto?», riesco a balbettare quando finalmente mi sono ripreso dalla paura.
«Sapete quante ne vedo di scene come la vostra, da quassù?».
«E qualcuno le ritrova?», chiedo all’elettricista.
«Sì, tutti le ritrovano. Venite, vi mostro la via d’uscita».
Il ragazzo sparisce dietro un telo di gomma nera e io mi affretto a seguirlo.
La luce del sole mi abbaglia e devo fermarmi per far abituare gli occhi.
Sarò rimasto in quel posto buio per almeno tre ore.
«Sapete dov’è andato Procolo?», chiedo all’elettricista quando raggiungiamo il parcheggio.
«Forse in curia. Va sempre lì quando lascia il cimitero», risponde lui e torna dentro al camposanto.
Mi metto in auto e parto a tutta velocità. L’idea di beccare Procolo con un passaporto falso e una valigetta piena di soldi mi annebbia la vista ma cerco di rimanere lucido.
La puntata I la trovi qui
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