IRA . Lettere dall'Ira
L’orario dei treni
In 15 Maggio 2020 da Chiara MenardoSfili il pugno dalla tasca e alzi una mano puntando il dito sul tabellone giallo.
L’orario dei treni è lì come sempre, rassicurante, allo stesso posto ogni volta. Scorri tra le partenze, leggendo piano ogni stazione d’arrivo. Roma Termini, Milano Centrale, Trieste Centrale, Munchen HB, Napoli Centrale, Nice Ville…
Quanto tempo ci vuole per arrivare a Parigi? E una volta lì, cosa faresti? Usciresti da Gare de Lyon con la tua borsa in mano e poi?
Scuoti la testa, sei solo di passaggio. Non hai nessun treno da prendere. Rimetti la mano in tasca e ti volti, le vetrate del bar sono davanti a te. Un caffè veloce ci sta, hai ancora un po’ di tempo.
Spingi la porta, alzi di nuovo una mano, un caffè normale per cortesia e no, non vuoi la brioche e il succo d’arancia al prezzo speciale di due euro e cinquanta. Grazie, davvero, non ti va.
Hai lo stomaco chiuso, basta un caffè.
Di fianco a te, gente che entra e domanda. Un caffè, un bicchiere di acqua gasata, un panino. Li osservi mentre giri il cucchiaino. Bagagli, borse, zaini, valige. Chissà dove vanno o se stanno arrivando, ti domandi. Chissà che vita fanno, chi li sta aspettando, se sono venuti a prendere qualcuno in stazione o se, come te, fanno tappa perché qui il caffè non è poi così male. Ne fanno tanti, forse è per questo che la schiuma è densa e il sapore ti addolcisce la bocca per almeno dieci minuti.
Guardi l’orologio: adesso si sta facendo tardi. Ti volti e lasci i binari alle spalle. Il marmo, i negozi, il rumore dei trolley sulle strisce di gomma, la voce dell’altoparlante che annuncia l’arrivo del regionale numero 10200 da Cuneo, due militari in tuta mimetica e berretto rosso che passeggiano lenti tenendo le mitragliette con indifferenza, come se fossero semplici tracolle. Distogli lo sguardo, fissi gli occhi sulla riga scura davanti a te e cammini. Cammina con calma, è tutto a posto, ti ripeti.
Le note del pianoforte nell’atrio diventano sempre più forti. Il ragazzo con le treccine seduto sullo sgabellino nero, circondato da un capannello di persone in ascolto, suona bene. Gershwin, ti pare. O, comunque, qualche pezzo jazz.
Passi oltre, sotto il soffitto alto e le grandi vetrate. Sei in strada, sotto il porticato massiccio. Ti avvolge il rumore delle auto che passano e accelerano, un attimo prima che i semafori diventino rossi.
Un fiume di persone ti circonda, si scontra e si incaglia sulle strisce pedonali. Ti immergi in quel flusso di gomiti, gambe e telefonate, sei come un pesce nel mezzo di un banco, ti perdi nella corrente e vai, senza pensare.
Però è vero che vorresti partire. Prendere una borsa, buttarci dentro quattro cose e andare via, anche solo per un po’. Già. A chi non piacerebbe?
Potresti sempre dire di no e andartene, lasciare tutto e mettere davvero i tuoi stracci in valigia, comprare un biglietto del treno per il posto più lontano che c’è e sparire. Tanto, chi se ne accorgerebbe?
Loro. Lo saprebbero e verrebbero a cercarti, questo è sicuro.
Come sia successo che adesso ti trovi in questo pasticcio non l’hai ancora capito. È stata una serie di sfortunate coincidenze, una sequela di sì detti senza pensare e adesso sei lì che cammini e non puoi tirarti indietro. È troppo tardi.
O forse no, potresti sul serio tornare sui tuoi passi e cominciare a dire di no. Pagare il prezzo. Le mani tremano nelle tasche. Gli occhiali da sole nascondono gli occhi impauriti.
Ti fermi di colpo in mezzo al fiume di gente che si scansa veloce, indifferente. Come l’acqua di un torrente che scivola intorno a un sasso.
Inizi a pensare che questa cosa non la vuoi fare, nossignori, adesso basta, è troppo. Ti hanno detto di non telefonare, puoi solo andare all’appuntamento e fare quello che è stato deciso. Potresti semplicemente non presentarti, dare buca, mandare tutto all’aria. Perché no?
Perché ti troverebbero, ecco perché. Ti senti al fondo di un vicolo cieco. Impotente, con il terrore come unico compagno. Un passo, un altro e un altro ancora.
Quante volte hai ripetuto che in fondo ce l’avresti fatta, che sei in grado di andare fino in fondo? Che, insomma, basta un po’ di coraggio…
Coraggio, mentre le gambe diventano sempre più pesanti a mano a mano che ti avvicini. Coraggio, mentre ripassi ogni punto per non dimenticare nulla. Coraggio, ce la puoi fare anche se in fondo non vuoi.
Dicono che la prima volta sia la più difficile, poi ci si abitua. La prossima volta sarà più facile, dicono.
Non ci sarà nessuna prossima volta, ripeti mentre, passo dopo passo, ti avvicini all’appuntamento. Questa sarà la prima e l’ultima.
Una sera, qualche bicchiere di troppo e quello che era nato come uno scherzo è diventato un piano, con i ruoli e i tempi scanditi, i sopralluoghi, le prove.
Ti hanno assicurato che non ci sono rischi. Qualche minuto di adrenalina e poi ognuno per la sua strada, come se non vi foste mai conosciuti. Semplice, lineare. Non hai niente da perdere, hanno detto.
E allora, perché il tremito cresce a ogni passo e senti lo stomaco che si ribalta e si chiude? Se è così semplice da rasentare la stupidità, perché a ogni metro rallenti?
Lo sai benissimo che non è né semplice né privo di rischi. Oh, se lo sai, nonostante quello che dicono loro, che lo hanno già fatto altre volte.
Navighi in mezzo al fiume di persone. Una goccia d’acqua tra mille altre gocce, finché non li vedi.
Ti stanno aspettando. Sei ancora in tempo.
C’è gente per strada, puoi girare all’angolo e perderti tra le vie, tornare a casa e inventare una scusa quando verranno a cercarti. O, magari, sarai già su un treno per chissà dove, quando arriveranno alla porta a chiedere conto della tua vigliaccheria.
Uno di loro alza il viso e ti vede, fa un cenno. Ecco, adesso è tardi, ora ci sei dentro e non puoi più uscirne. Sono tutti cavoli tuoi.
Serri la mascella e stringi i pugni nelle tasche. Chiudi gli occhi un istante e prendi un respiro: devi riempirti di aria i polmoni, ossigeno e smog, inspira ed espira, butta fuori tutta la paura che hai dentro. Ormai è tardi. Non si torna più indietro.
Ti raggiungono, sono in tre. Uno lo conosci, è quello che ti ha agganciato, conoscente di conoscenti. Ti ha puntato tutta la sera, preso da parte e “Oh, tu sembri in gamba. Teniamoci in contatto.”
Ed ecco dove ti ha portato tenersi in contatto. Te la stai facendo sotto, e gli altri due non li hai nemmeno mai visti.
Ehi, pensi, questi chi sono? Dove sono gli altri? Io così non ci sto, provi a obiettare ma non te ne danno il tempo. Il tizio che ti ha convinto a prendere parte a questa cazzata non te li presenta neanche. In fondo, non c’è alcun bisogno di convenevoli: è questione di qualche minuto e poi ognuno per la sua strada.
Il ferro è freddo quando te lo mettono in mano. Pesa.
Stai qui e avvisaci se arriva qualcuno, ti hanno detto prima di entrare nel negozio deserto. Tra poco sarà orario di chiusura.
Una cosa di qualche minuto, appoggiati al muro di fronte e aspetta, ti hanno detto. Se arriva qualcuno, i carabinieri, la polizia, fai una chiamata col telefonino. Semplice, no? Vi vedrete più tardi per dividere, seduti in un bar anonimo di una via senz’anima. Semplice, no?
Uno dei tizi ti squadra, riprende il ferro e ti dice che non ne hai bisogno, si vede lontano un miglio che non sei del giro. Dice che la tua paura puzza. Si volta verso gli altri due e, indicandoti con il mento, dice ecco, vedi? manderà tutto a puttane. È arrabbiato.
Lo squadri. Forse questo sarebbe il momento migliore per battertela: metti su la tua miglior faccia offesa, gira sui tacchi e fila via! Ti ha appena regalato una via d’uscita sul piatto d’argento, approfittane.
Ma esiti, e loro annuiscono guardandosi, scrollano le spalle ed entrano, indicando con il mento la tua postazione: un pezzo di muro di fronte alle vetrine della gioielleria.
Giocherelli con il telefono e ti guardi intorno. Non passa nessuno, sta andando tutto bene, è tutto a posto. Se ti beccano finisci dentro, lo sai? Continui a ripeterti. Un andirivieni schizofrenico di pensieri: va tutto bene, mi arrestano, va tutto bene…
Una luce si accende sopra la saracinesca. Strano, prima non c’era, rifletti. Un tonfo e un grido, dentro la gioielleria.
Un attimo immobile, fermo, non sai cosa fare lì, contro il muro, mentre il cervello ti dice di dartela a gambe e le gambe non riescono a muoversi. Un tonfo e un grido, solo quello, poi dei movimenti dietro i vetri. Scomposti. Un solo istante di silenzio assoluto, c’è il suono del sangue che scorre nel tuo cervello ma è paura, quella, la riconosci al volo. Che cazzo ci fai qui, ti domandi. E adesso cosa succede? Qualcosa non è andato come doveva, e tu adesso cosa pensi di fare?
Un fischio lontano, acuto. Si sta avvicinando. Cazzo, sta arrivando la polizia, pensi. Tra poco sarà lì.
Ti guardi intorno. Non c’è ancora nessuno.
Adesso o mai più, adesso o è finita, muoviti, idiota!
Le spalle si scostano dal muro e fai un passo, un altro e poi ancora uno. Non correre, cammina, ti ripeti. Non è reato stare appoggiati contro il muro, rifletti. Lento vai via, mentre la porta della gioielleria si spalanca e quello lì, quello che aveva detto che tu avresti mandato tutto a puttane esce correndo, con il viso stravolto e la scacciacani modificata ancora tra le mani.
Acceleri il passo, che non ti venga dietro, non ti chiami, per Dio, che stia zitto, che crepi prima di poter dire qualcosa…
Volti l’angolo mentre un’auto dei carabinieri si ferma sgommando davanti al negozio, ti confondi tra la gente che si accalca per guardare cosa stia succedendo ma tu non ti fermi. Stai pensando alle prossime tappe: torna in stazione, ripassa davanti al caffè, non fermarti a guardare l’orario dei treni in partenza. Prendi la metro, torna a casa, dimentica tutto.
Non sanno il tuo nome.
Andrà tutto bene. Domani leggerai sul giornale di una rapina sventata, se ci saranno stati degli arresti o dei morti.
Lo leggerai da qualche altra parte. È ora di prendere i tuoi quattro stracci, buttarli in una borsa e vedere cosa succede quando uscirai dalla stazione di un’altra città, la più lontana che riuscirai a raggiungere con il prossimo treno.
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